Giovanni Padovani è stato condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Bologna per aver ucciso la sua ex fidanzata Alessandra Matteuzzi il 23 agosto del 2022. Il femminicidio era avvenuto sotto l’abitazione della donna dove Padovani si era appostato in attesa che Alessandra rientrasse. Mentre era al telefono con sua sorella, perché spaventata dal comportamento persecutorio posto in essere da tempo dal suo ex, Alessandra era stata aggredita mortalmente a colpi di martello. L’uomo aveva sfogato contro di lei tutta la sua rabbia, arrivando a scagliarle addosso una panchina di ferro posta nell’androne del palazzo.
La condanna in Appello arriva a conferma della sentenza di primo grado, in quella sede a Padovani erano state riconosciute le aggravanti della premeditazione, dello stalking, dei futili motivi e del legame affettivo. In Appello l’uomo ha rilasciato delle dichiarazioni nel corso delle quali afferma di amare ancora Alessandra, di amarla e di esserne ossessionato. Ha asserito inoltre, come dichiarato da Stefania, la sorella di Alessandra, di “vivere due vite”, la sua e quella di Alessandra.
Un atteggiamento il suo che ricorda molto quello tenuto in aula da Luca Delfino, al processo che lo vedeva imputato per il femminicidio (in un’epoca in cui questo termine non veniva utilizzato e non avevamo ancora una legge che riconosceva il reato di stalking) della sua ex fidanzata Antonella Multari, straziata a Sanremo con 40 coltellate all’uscita da un negozio fuori del quale l’uomo si era appostato in attesa che Antonella uscisse.
Delfino in quella circostanza si era presentato in aula urlando il nome di Antonella, sostenendo (come aveva già fatto di fronte al PM) di amarla e di essere vittima di un bluff architettato da chi stava nascondendo Antonella (i suoi genitori) per non fargliela vedere. Luca Delfino, fermato nel 2007 con le mani ancora sporche del sangue di Antonella, subito dopo l’aggressione, era stato successivamente ritenuto parzialmente incapace di intendere e di volere e per questo, oggi è recluso in una REMS.
Al contrario Padovani, dopo essere stato sottoposto, nel corso del primo grado di giudizio, a una perizia psichiatrica, non solo era stato valutato in grado di intendere e di volere, ma i periti avevano affermato anche che lo stesso presentava una “generalizzata tendenza ad accentuare significativamente, se non francamente simulare, sintomi psicopatologici e neurocognitivi”.
Non una patologia quindi, ma più verosimilmente l’adesione a una strategia che lo portava a far finta di avere sintomi psicopatologici per ottenere una diminuzione della pena. Dirimente in tal senso, oltre a quanto emerso dalle valutazioni cliniche e psicodiagnostiche, era stato il fatto che lo stesso avesse iniziato a riferire di sentire delle “voci” che lo esortavano ad uccidere, ad usare un martello e colpire, solo molti mesi dopo il femminicidio di Alessandra, proprio nel corso del primo incontro con i periti.
Le frasi riferite in aula, nel corso del processo di Appello, appaiono in questa ottica, non il risultato di un’ideazione delirante, del pensiero cioè di un soggetto che non ha un buon esame di realtà, ma piuttosto una continuazione di quell’atteggiamento di simulazione rilevato dai periti della Corte oltre che l’ennesima prevaricazione ai danni di Alessandra.
Padovani manifesta con queste parole la sua volontà di possesso nei confronti della vita della donna che ha ucciso, legandola ancora a lui attraverso un sentimento che lui definisce d’amore ma che nella realtà lo ha portato a sentirsi autorizzato a perseguitare, controllare e terrorizzare Alessandra fino alla morte.