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Cambiamenti climatici

Perché la fusione nucleare non ci salverà dal cambiamento climatico

L’annuncio dell’Agenzia Nazionale dell’Energia Usa è epocale, ma la fusione nucleare non è il Sacro Graal che ci eviterà la catastrofe climatica. Ecco perché le rinnovabili e il cambiamento delle nostre abitudini sono ancora necessari.
A cura di Fabio Deotto
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Per la prima volta siamo riusciti a replicare delle condizioni che sono riscontrabili unicamente nelle stelle e nel sole. Questa pietra miliare è un significativo passo in avanti verso la possibilità di una società alimentata da un’energia di fusione a impatto zero.” Sono le parole con cui l’Energy Secretary statunitense Jennifer Granholm ha annunciato ufficialmente l’esito del primo esperimento di fusione nucleare in cui l’energia finale ottenuta è stata maggiore di quella introdotta in partenza. Alla National Ignition Faciltiy di Livermore, in California, a fronte di 2,05 megajoule di energia utilizzati per innescare la reazione di fusione, il reattore ne ha prodotti 3,15, generando di fatto più del 50% dell’energia di partenza.

Si tratta di un evento epocale? Sicuramente. Una pietra miliare nella storia della tecnologia energetica e della scienza tutta? Senza ombra di dubbio. Abbiamo finalmente un asso nella manica per contrastare la crisi climatica? Purtroppo no: per quanto esaltante e promettente sia questo traguardo, infatti, difficilmente potrà essere di qualche utilità nell’affrontare nel breve termine un problema urgente come quello climatico.

Per capire perché, è il caso di andare con ordine.

Di cosa parliamo quando parliamo di fusione nucleare

Si parla di “fusione nucleare” quando i nuclei di due o più atomi vengono forzati a unirsi in un terzo elemento; nel caso di elementi con numeri atomici sufficientemente bassi la massa dell’elemento risultante è inferiore a quella dei nuclei iniziali, il che porta a un’emissione di energia verso l’esterno. Il problema è che per avvicinare i nuclei a sufficienza da innescare la fusione è necessario vincere la forza di repulsione elettromagnetica; in soldoni: c’è bisogno di energia, tanta energia. È per questo che negli ultimi decenni molti non hanno esitato a bollare questa prospettiva energetica come poco vantaggiosa, ed è per questo motivo che i reattori a fusione sperimentali tendenzialmente utilizzano elementi con numero atomico molto basso, in particolare isotopi dell’idrogeno come il deuterio e il trizio. La fusione deuterio-trizio può essere innescata con temperature relativamente basse (“relativamente” perché si parla nell’ordine dei milioni di gradi), che comunque richiedono sistemi di confinamento particolarmente complessi. Nella maggior parte dei casi, il plasma ionizzato viene compresso impiegando campi magnetici molto potenti (confinamento magnetico); nel caso del reattore di Livermore, invece, il plasma è stato riscaldato e compresso utilizzando dei potentissimi laser (confinamento inerziale). Nell’esperimento che ha fatto la storia, una minuscola capsula sferica contenente deuterio e trizio è stata posta all’interno di un cilindro in oro delle dimensioni di una gomma da matita (hohlraum) ed è stata poi bombardata da centinaia di raggi laser. Il cilindro si è così riscaldato a oltre 3 milioni di gradi, producendo raggi X che hanno provocato l’implosione della sfera di carburante, creando le condizioni perché avvenisse la fusione.

Per la prima volta nella storia dell’uomo, i processi energetici che alimentano il Sole sono stati riprodotti in laboratorio senza che il bilancio energetico andasse in negativo. Un traguardo importante, l’abbiamo detto, ma siamo ancora parecchio lontani dalla possibilità di ottenere energia nucleare di fusione in quantità e modalità sufficienti da soddisfare le necessità attuali.

Una scialuppa di salvataggio per un sistema tossico

È dai primi esperimenti con il reattore a confinamento magnetico Tokamak, negli anni ‘50, che la  fusione nucleare rappresenta la promessa di una fonte di energia pulita capace di produrre quantità enormi di energia con poco dispendio di materiali e senza produzione di scorie radioattive o inquinanti. Inizialmente si parlava di un’attesa di almeno 30 anni, ma poi questo orizzonte è stato allontanato di anno in anno; tanto che fino ancora poche settimane fa si parlava di un intervallo di 30 anni prima di poter sfruttare i primi reattori (per certi versi questa previsione è ancora valida, ma ci arriviamo fra poco).

La notizia di martedì ha sconquassato il panorama energetico mondiale – non fosse altro perché siamo in piena crisi climatica ed energetica, con una guerra fossile di portata mondiale ancora in corso e un’industria degli idrocarburi impegnata in uno scellerato canto del cigno -, ma non è arrivata del tutto inaspettata. Lo scorso anno, sempre alla National Ignition Facility di Livermore una reazione di fusione aveva prodotto 1,37 megajoules, praticamente il 70% dell’energia immessa in forma di laser. L’esperimento annunciato oggi ha finalmente raggiunto la cosiddetta “soglia di accensione da fusione”, il che significa che l’energia sprigionata dalla fusione è stata tale da consentire che la reazione sia autosufficiente (e dunque non necessiti di ulteriore apporto di energia esterno.)

Com’era prevedibile, la notizia ha galvanizzato quanti continuano a dichiararsi scettici su un passaggio completo alle rinnovabili; c’era da aspettarselo: l’abbandono dei combustibili fossili non si sta configurando semplicemente come un addio a un sistema di produzione energetica insostenibile, quanto come una vera e propria rivoluzione infrastrutturale. L’idea che all’orizzonte stia facendo capolino una fonte energetica potenzialmente inesauribile e potenzialmente pulita (dico potenzialmente perché in realtà, finché non si perfezionano sistemi di fusione aneutronica, anche la fusione nucleare comporta problemi di radioattività), per molti rappresenta una scialuppa di salvataggio per un sistema produttivo ed economico ormai dichiarato obsoleto.

Non esiste transizione senza rinnovabili

Lo scorso 7 dicembre, un report dell’Agenzia Internazionale dell’Energia ha rivelato come il peso delle energie rinnovabili nel bilancio energetico globale stia crescendo a un ritmo superiore a ogni più rosea aspettativa, anche per via della crisi energetica in cui ci troviamo, tanto che nei prossimi cinque anni si potrebbe arrivare a produrre tanta energia verde quanto quella prodotta negli ultimi vent’anni. “Secondo le nostre stime, nel periodo compreso tra il 2022 e il 2027 le rinnovabili cresceranno di 400 gigawatt.” si legge nel documento “Parliamo di un’accelerazione dell’85% rispetto all’ultimo quinquennio, e di uno scarto del 30% rispetto alle previsioni dello scorso report.” Nello stesso periodo si prevede anche che la capacità di produzione di energia solare crescerà al punto da superare quella del carbone.

Un simile cambio di scenario, naturalmente, corrisponde a un cambio di paradigma a livello di investimenti, ed è la dimostrazione che gli obiettivi di decarbonizzazione auspicati dagli scienziati sono molto più raggiungibili di quanto si creda. Ma perché la transizione venga completata, e la crisi climatica possa essere arginata a sufficienza da mantenere questo pianeta vivibile, è necessario che si continui a investire in questa direzione. Di fronte a un annuncio come quello di martedì c’è chi spera che questa svolta porti a convogliare investimenti assai più massicci sul fronte nucleare. Non è un’ipotesi così campata per aria, considerando che negli ultimi tempi gli investimenti nel nucleare di fusione si stanno impennando: basti pensare che soltanto nello scorso anno a livello globale si sono investiti 2,8 miliardi di dollari, molto di più degli 1,9 miliardi investiti nel resto dello scorso decennio.

Decidere di virare una fetta corposa degli investimenti energetici sull’orizzonte lontano della fusione nucleare sarebbe una sciagura, e questo perché, piaccia o meno, la transizione verso un mondo decarbonizzato non può che essere rinnovabile. Attenzione: non sto ponendo una questione ideologica, ma pratica. Allo stato attuale, infatti, puntare sull’energia nucleare per abbandonare i fossili è impraticabile sia dal punto di vista dei costi che delle tempistiche, e questo vale in particolar modo per il nucleare da fusione. Per quanto galvanizzante possa risultare il traguardo di Livermore, infatti, ancora dev’essere sviluppato un sistema per trasformare l’energia ottenuta dalla reazione in energia elettrica che possa essere immessa in rete; c’è poi una questione pratica legata alla necessità di costruire dispositivi nettamente più grandi, che consentano di produrre energia su larga scala, e che richiederebbero materiali e strutture incredibilmente costose e materiali complessi da produrre; inoltre i neutroni prodotti dalla reazione sottopongono la struttura a uno stress talmente elevato da rischiare di distruggerla.

Come ha fatto notare Jeremy Chittenden in un’intervista con la CNN “Al momento stiamo impiegando moltissimo tempo e denaro per ogni esperimento, questi costi devono essere ridotti enormemente. […] Non possiamo pensare che questa fonte di energia possa contribuire in modo significativo all’abbattimento delle emissioni di qui ai prossimi 20-30 anni. È come se fossimo riusciti ad accendere un fiammifero, mentre abbiamo bisogno di una turbina a gas.”

Ma c’è un altro aspetto di cui tenere conto, e cioè che se anche tutte queste problematiche non esistessero, anche se fossimo già oggi pronti a installare nuove centrali a fusione in tutto il globo, questo non basterebbe a salvarci dal collasso ecosistemico. Anzi, potrebbe addirittura darci un’ulteriore spinta verso il baratro.

Il pericolo di un Sacro Graal energetico

Alcuni mesi fa, durante un summit del lancio di una nuova strategia della Casa Bianca sull'energia da fusione, il deputato Don Beyer ha dichiarato che "la fusione ha il potenziale per togliere dalla povertà più persone di qualsiasi altra cosa dall'invenzione del fuoco". In queste ore, mentre il mondo scopre che una fusione nucleare vantaggiosa è effettivamente possibile, in molti non esitano a indicare l’energia da fusione come il “Sacro Graal” dell’energia pulita, la panacea energetica che ci consentirà di continuare a vivere su questo pianeta senza cambiare troppo il nostro modo di vivere.

Ma pensare che basti eliminare il problema energetico per risolvere l’equazione climatica significa ignorare le stratificazioni e le interconnessioni dell’emergenza in cui ci troviamo; soprattutto, significa ignorare quanti limiti planetari abbiamo già superato. Perché è vero che l’aumento delle emissioni climalteranti si sta ripercuotendo su ogni aspetto della nostra vita su questo pianeta, ma è altrettanto vero che ci sono molti altri processi che, a causa del sistema produttivo capitalistico, sono prossimi al collasso, alcuni dei quali non hanno niente a che fare con le emissioni. Per dirne qualcuno: Abbiamo compromesso l’integrità della biosfera, con una biodiversità in picchiata; abbiamo compromesso i cicli biogeochimici del fosforo e dell’azoto, fondamentale per la sopravvivenza degli esseri viventi; abbiamo acidificato gli oceani oltre il livello di soglia; stiamo consumando suolo e acqua a ritmi già insostenibili.

La transizione ecologica non è solo un passaggio obbligato da un sistema energetico inquinante a uno pulito, è anche un’occasione epocale per mettere in discussione un intero sistema economico e produttivo, per completare quella “rivoluzione infrastrutturale”, per dirla con Jeremy Rifkin, che ci consentirebbe di preservare quanto rimane degli ecosistemi esistenti e di favorire la “rinaturalizzazione” di un pianeta degradato. In quest’ottica, la ricerca ossessiva di un Sacro Graal energetico tradisce la speranza di poter evitare questa rivoluzione, di poter mantenere in essere un sistema insostenibile sotto ogni punto di vista, usando come foglia di fico la promessa di una sostenibilità energetica.

Il nucleare di fusione potrà anche essere l’energia pulita del futuro, ed è giusto che la ricerca in questa direzione continui. Ma non facciamo l’errore di considerarla una priorità: in questo momento noi abbiamo bisogno di un’energia pulita per il presente, e di una transizione infrastrutturale che renda la nostra vita su questo pianeta sostenibile. Ed è questo l’orizzonte su cui dobbiamo maggiormente investire.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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