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Opinioni

Perché la crisi climatica ci sta rendendo più depressi, aggressivi e nostalgici

Nessuno si sarebbe mai aspettato che il cambiamento climatico avrebbe intaccato anche il nostro equilibrio psicologico. Le donne e i giovani le categorie più a rischio ‘eco-ansia’.
A cura di Fabio Deotto
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Ph by Christopher Furlong/Getty Images
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L’abbiamo detto più volte, e ormai non abbiamo dubbi: la crisi climatica sta modificando ogni singolo aspetto della nostra esistenza. Stiamo perciò prendendo dimestichezza con l’idea che questo problema rivoluzionerà le nostre vite, a partire dal modo in cui mangiamo, al modo in cui ci spostiamo, a come lavoriamo e abitiamo. Quello che però forse non ci aspettavamo era che il riscaldamento globale avrebbe intaccato anche il nostro equilibrio psicologico, andando a incidere su patologie e nevrosi che fino a poco tempo fa nessuno si sarebbe sognato di accostare al cambiamento climatico. E non parlo di una prospettiva futura, parlo di qualcosa che sta già succedendo.

Alcuni giorni fa sulla rivista Nature è stato pubblicato uno studio che mostra come l’aumento delle temperature e dell’umidità sta incidendo sul tasso di suicidi in diversi punti del globo. Non è la prima volta che viene presa in considerazione la possibilità che un ambiente più caldo finisca per aggravare alcune patologie psichiche, ma è la prima volta che viene preso in esame un campione così ampio (60 paesi diversi) e un periodo così esteso (gli ultimi 35 anni). Ma il dato più interessante è che questo studio mostra un’eventualità che per ora non era stata presa in considerazione, e cioè il fatto che il fattore determinante non sia tanto il calore in sé, quanto l’umidità.

Un mondo più umido e invivibile

Lo scorso luglio, un fronte di aria calda e umida in arrivo dal Mar Arabico si è spostato sopra la città di Jacobabad, in Pakistan, portando i termometri a sfiorare i 52 gradi. Un livello che potremmo definire disumano senza paura di esagerare, considerando che in quelle condizioni un corpo umano in salute fatica persino a mantenere la posizione eretta.

I 52 gradi registrati in Pakistan, per quanto impressionanti, rischiano però di essere fuorvianti. Perché come dicevamo il vero problema riguarda l’umidità, e allora c’è un altro valore di cui bisogna tenere conto. La cosiddetta “temperatura di bulbo umido” è il parametro utilizzato per calcolare l’effetto refrigerante dell’evaporazione di acqua in un determinato ambiente. Per calcolarlo si usa un termometro avvolto in un panno umido che viene sottoposto a un flusso d’aria costante. Quando la temperatura registrata da questo termometro (anche se il termine corretto sarebbe “psicrometro”) supera i 35 gradi, il corpo umano non è più in grado di abbassare la propria temperatura sudando, e di conseguenza rischia il collasso fisiologico degli organi.

Tra le ricadute già osservabili del riscaldamento globale c’è un netto aumento delle ondate di calore e dei picchi di umidità oltre i 35 gradi di bulbo umido. Questo significa che se davvero l’umidità incide in maniera pesante sulle condizioni psico-fisiche degli individui, il problema è destinato ad aumentare nei prossimi anni.

Le ragioni per cui un’umidità eccessiva influisce sulla salute mentale di una persona già fragile sono tanto semplici quanto disarmanti. Innanzitutto, l’abbiamo appena detto, un ambiente umido compromette la nostra capacità di sudare, dunque di ridurre la temperatura corporea, questo è problematico già di per sé ma lo è ancora di più per chi è in cura con farmaci come gli antidepressivi, che anche in condizioni normali interferiscono con la regolazione della temperatura corporea. In parole povere, questo significa che le persone affette da depressione, schizofrenia, disturbo bipolare o sindrome ossessiva – ma anche chi soffre di ansia e insonnia – rischiano di subire ancor di più gli effetti psicologici già debilitanti di un ambiente surriscaldato.

Le donne e i giovani sono le categorie più a rischio

Un dato particolarmente preoccupante riguarda la tipologia di soggetti colpiti. A quanto pare, infatti, il tasso di suicidio aumenta in correlazione all’umidità soprattutto tra le donne e tra gli individui più giovani. Questo per ragioni diverse.

Innanzitutto, statisticamente, si registra una maggior tendenza a diagnosticare disturbi mentali nelle donne, rispetto agli uomini, questo anche per via di ostinati pregiudizi culturali che tratteggiano lo stereotipo di una donna iper-emotiva e isterica, che dev’essere dunque sottoposta a controllo farmacologico. A questo va aggiunto che nel mondo le donne si trovano spesso in condizioni di discriminazione e marginalizzazione, e ancor più spesso sono costrette a farsi carico di uno stress fisico e psicologico maggiore, essendo in tantissimi paesi nella posizione di doversi prendere cura in media di intere famiglie, il che contribuisce la categoria ad essere particolarmente vulnerabile agli effetti della crisi climatica.

Anche gli individui più giovani (tra i 5 e i 24 anni di età, per capirci), sono una categoria vulnerabile, e ciò è dovuto al fatto che si trovano a subire gli effetti di un clima in cambiamento mentre ancora sono nel pieno del proprio sviluppo mentale, e dunque dispongono di meno difese. Non solo, è stato osservato come nella maggior parte dei casi i disturbi psichiatrici comincino a manifestarsi intorno ai 14,5 anni di età, per poi diventare cronici entro i 18 anni. Questo significa che nel pieno dell’adolescenza gli individui sono incredibilmente vulnerabili alle ricadute psicologiche di ondate di calore, alluvioni, siccità. Uno studio pubblicato lo scorso settembre dall’università di Montreal ha mostrato come l’esposizione a questi eventi climatici comporti un aumento di ansia e depressione, dei casi di sindrome da stress post-traumatico, per non parlare degli effetti sul sonno, l’apprendimento e i risultati scolastici.

Crescere in condizioni climatiche stressanti, insomma, può rovinarti a vita. Questo oggi si registra soprattutto nel Sud del mondo, ma stanno emergendo sempre più casi anche nei paesi industrializzati, in particolare nelle zone costiere e nelle città.

L’eco-ansia, un nemico invisibile

Quello che abbiamo visto è solo un esempio di come la crisi climatica stia mettendo a repentaglio la nostra salute mentale. E quando dico “nostra” parlo di quella di tutti. Non dobbiamo infatti fare l’errore di pensare che, soltanto perché le persone più colpite sono quelle già affette da patologie e nevrosi, questo significhi che gli altri ne escano illesi. Sappiamo infatti che temperature eccessive, come quelle registrate in tantissime città quest’estate, influiscono sul comportamento di tutte le persone, aumentandone l’irritabilità e l’aggressività, lo stress e l’insonnia, andando quindi transitivamente a incrementare l’uso e l’abuso di alcol e droghe.

Ma al di là degli effetti diretti che il clima può avere sulla nostra psiche, esistono una serie di altre ricadute psicologiche che magari sono più difficili da identificare, e per questo ancora più insidiose.

Eco-ansia è un termine ombrello utilizzato per raccogliere tutti i modi indiretti in cui la crisi climatica sta incidendo sulla nostra salute mentale. L’American Psychological Association nel 2017 l’ha descritta come “la paura cronica del disastro ambientale”, una descrizione a mio avviso poco incisiva, dato che alcuni degli effetti psicologici della crisi climatica sono inconsci. Ma è l’aggettivo “cronico” quello su cui vale la pena concentrarsi. Ciò che rende l’ansia climatica particolarmente debilitante, infatti, è la sua persistenza, e la conseguente difficoltà nel ridurla.

Lo scorso settembre, una squadra di ricercatori dell’Università di Bath, in Regno Unito, ha pubblicato uno studio condotto su 10.000 persone di età compresa tra i 16 e i 25 anni, provenienti da 10 paesi diversi, sia nel Nord che nel Sud del mondo. L’obiettivo era capire se e come la crisi climatica stesse compromettendo il loro equilibrio mentale. Ebbene il 50% degli intervistati ha dichiarato che il decorso dell’emergenza ambientale, e soprattutto la trasversale inazione dei governi, contribuisce a renderli più tristi, ansiosi, arrabbiati, e a indurre un senso di impotenza e di colpa. Il 45% ha riconosciuto che questo tipo di emozioni abbia ricadute tangibili sul loro comportamento nella quotidianità.

Presto saremo tutti “solastalgici”

Ma l’abbiamo detto: esiste anche una componente inconscia, e dunque molto più difficile da individuare. Se infatti è comprensibile che le nuove generazioni stiano vivendo la crisi climatica in modo più traumatico e con maggiore ansia, questo non significa che i profondi cambiamenti che il nostro pianeta sta attraversando non stiano incidendo sulla psiche delle generazioni precedenti.

Il filosofo australiano Glenn Albrecht ha coniato un termine per descrivere il disagio inconscio prodotto dai cambiamenti dell’ambiente in un cui un individuo si trova a vivere. Solastalgia nasce dalla combinazione di “solace” (in inglese “conforto”) e nostalgia. “Si tratta del dolore o del disagio causati da un territorio che perde in modo costante la capacità di fornire conforto a chi ci vive” spiega Albrecht nel suo libro Earth Emotions, “è l’esperienza vissuta ed esistenziale di un cambiamento climatico negativo, che viene vissuto come un attacco al senso di appartenenza al posto in cui si vive.”

Per usare un’altra frase di Albrecht, più efficace e sintetica: è la nostalgia di casa quando sei a casa.

Tutti ricordiamo i mesi del primo lockdown, e ancora meglio forse ricordiamo la sensazione che abbiamo avuto nel maggio del 2020, quando per la prima volta abbiamo ricominciato a uscire in strada senza paura di incorrere in multe. Il mondo esterno era lo stesso di prima, per molti versi, eppure allo stesso tempo era molto diverso, sicuramente era un posto meno confortevole e sicuro di quanto eravamo abituati a considerarlo. D’un tratto, insomma, era molto più difficile sentirsi “a casa” al di fuori delle quattro pareti.

La stessa cosa sta succedendo con il cambiamento climatico. Il mondo sta cambiando, per molti versi è già cambiato, ed è sempre meno in grado di darci sicurezza e riparo. Presto dunque diventeremo tutti solastalgici, soprattutto chi si è abituato a vivere in condizioni ambientali diverse da quelle che esistono oggi; in un mondo che, di fatto, non esiste già più.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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