Doveva essere il summit dell’implementazione, o almeno così aveva detto il presidente egiziano alla cerimonia di apertura di COP27, ma è stato piuttosto il summit delle contraddizioni. A partire dalla presenza asfissiante di 636 rappresentanti dell’industria fossile (una compagine che supera quella dei delegati dei singoli stati); dall’incessante rombo dei jet privati che sciamavano attorno all’aeroporto di Sharm depositando leader che preparavano discorsi su impegni di riduzione e sforzi collettivi; dalla sponsorizzazione di Coca Cola, una delle aziende più inquinanti e fossili in assoluto; per non parlare del contesto militarizzato e ipersorvegliato in cui giornalisti, attivisti e partecipanti hanno trascorso queste due settimane.
La peggiore contraddizione, però, riguarda la sostanza: quello che a lungo verrà ricordato come un summit epocale, in cui per la prima volta si è stabilito un fondo di aiuto per i paesi meno responsabili e più colpiti dalla crisi climatica, è stato anche quello meno ambizioso sul fronte della mitigazione. Si potrebbe davvero parlare di accordo storico, se fossimo ancora nel 2009, alla COP di Copenhagen, o anche solo nel 2015, a quella di Parigi, ma siamo nel 2022, a Sharm El Sheik, la crisi climatica è ormai entrata nel suo vivo, la finestra di tempo si è ristretta di molto: in una situazione simile, istituire un fondo loss and damage senza corredarlo di impegni seri sulla mitigazione è come regalare un casco a una persona che stiamo per buttare giù da un burrone.
Ma andiamo con ordine.
Loss and damage: la lunga battaglia per i risarcimenti climatici
La questione l’ha riassunta perfettamente il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif, durante i primi giorni di meeting; dopo aver ricordato le terribili inondazioni che hanno sommerso un terzo del suo paese, colpendo 33 milioni di persone, distruggendo migliaia di chilometri di ferrovie e milioni di acri di campi coltivati, Sharif ha puntato il dito contro i rappresentati dei paesi che più sono responsabili di questo tipo di devastazioni: “Siamo diventati vittima di qualcosa con cui non avevamo niente a che fare, e naturalmente si tratta di un disastro a responsabilità umana” ha detto “Immaginate di dover da un lato spendere miliardi di dollari per garantire la sicurezza alimentare alle persone comuni e dall’altro di dover spendere miliardi di dollari per proteggere le persone colpite da inondazioni da ulteriori miserie e difficoltà. Come ci si può aspettare che ci sobbarchiamo un compito talmente gigantesco con le nostre sole forze?”.
La questione loss and damage, ossia la necessità di riconoscere i danni e le perdite che una parte del mondo sta già subendo per colpa di emissioni che non ha contribuito (se non in modo infinitesimale) a creare, fino allo scorso anno non è mai rientrata nel documento ufficiale; questa volta invece è stata posta tavolo delle discussioni fin dal primo giorno. E non poteva essere altrimenti, dal momento che a ospitare la COP27 è un paese, come l’Egitto, che rientra tra i 134 paesi del G77, l’organizzazione che riunisce le nazioni meno industrializzate e spesso più colpite della crisi. Ma si tratta anche di un tema molto osteggiato, e forse il più temuto di tutti, perché se davvero passa il concetto secondo cui è possibile affibbiare un prezzo alla crescita economica e al contestuale consumo di risorse ed ecosistemi, se davvero si arriva a decidere che la ricchezza naturale del pianeta (e la sicurezza di tutte le persone che ci abitano) abbia un valore superiore della ricchezza monetaria a cui da secoli viene sacrificata, si crea un precedente importante per cominciare a smantellare il sistema produttivo ed economico che ci ha portati in questa situazione.
I negoziati sul loss and damage hanno visto contrapporsi da un lato i paesi del G77 e la Cina, che hanno insistito perché venisse istituito uno strumento finanziario specifico, che impegni i paesi più ricchi sulla base della loro responsabilità storica e attuale in termini di emissioni, e dall’altro i paesi più industrializzati, in particolare gli USA, l’UE e la Gran Bretagna, che hanno continuato a insistere perché la questione venisse affrontata con gli strumenti di cooperazione già esistenti. Lo spiraglio di luce si è intravisto nella mattina di venerdì, quando il vice-presidente della Commissione Europea, Frans Timmermans, ha annunciato che l’UE era disposta a sostenere l’istituzione di un fondo specifico per i risarcimenti climatici; a patto, però, che la base dei “donatori” sia allargata anche a quei paesi che nel 1992, all’epoca della prima COP, erano considerati paesi in via di sviluppo e che invece ora hanno emissioni persino superiori ai maggiori inquinatori. Il riferimento è naturalmente alla Cina, che in questa COP ha giocato a tenere un piede in due scarpe, schierandosi con gli stati del G77, approfittando della posizione ambigua in cui si trova: se infatti è vero che la Repubblica Popolare ha una responsabilità storica limitata in termini di emissioni, è anche vero che oggi è la nazione più impattante di tutte.
Questo lungo braccio di ferro è andato avanti fino alla notte di sabato, quando una plenaria rimandata più volte, intorno alle 5 del mattino ha trovato un accordo sull’istituzione di un fondo per i paesi più vulnerabili. I paesi del G77 premevano perché si mettesse nero su bianco anche una roadmap che imponesse di rendere il fondo operativo di qui al 2025, ma nel testo finale i dettagli e le tempistiche vengono rimandate alla COP dell’anno prossimo. È sicuramente un passo in avanti epocale, e crea un precedente cruciale per poter parlare operativamente di giustizia climatica, peccato che lo stesso tipo di coraggio non si è trovato sul fronte più importante di tutti: quello della mitigazione.
Mitigazione: una pericolosa camminata sul posto
Questa COP, l’abbiamo detto, non è cominciata sotto i migliori auspici, nei giorni di apertura sono circolati diversi articoli che stabilivano fosse impossibile mantenersi sotto la soglia limite di 1,5 gradi di riscaldamento globale. Ora, sebbene sia vero che alcuni scienziati ritengano ormai irraggiungibile questo obiettivo – soprattutto considerando che le emissioni stanno continuando a crescere – è anche vero che tecnicamente il margine e gli strumenti per mantenerci al di sotto questa soglia esistono. È un bene perciò che, al giro di boa di queste due settimane di COP27, i leader presenti al G20 di Bali abbiano deciso di comune accordo di mantenere questo obiettivo all’interno del documento finale.
Il problema è che non basta inserire due cifre in un documento per rendere un obiettivo raggiungibile, è necessario muoversi operativamente per stabilire un percorso di decarbonizzazione e degli impegni vincolanti. Ecco, da questo punto di vista, il documento finale uscito dalla conferenza di Sharm è tutt’altro che incoraggiante.
Uno dei passaggi più deludenti della scorsa COP26, in tema di abbandono del carbone, è stata la decisione dell’India, di insistere per cambiare la locuzione “phase-out” (intesa come eliminazione del carbone dalla ricetta energetica globale) in “phase-down” (intesa come riduzione graduale). Il documento finale di COP27 mantiene questa locuzione annacquata relativamente al carbone, e nel contempo non esplicita la necessità di abbandonare i combustibili fossili.
Questo precario passo sul posto non stupisce, considerando che nel frattempo è scoppiata una guerra che ha innescato una crisi energetica globale. Come non stupisce che ben poche tra le nazioni che a Glasgow si erano impegnate a rinnovare e rendere più ambiziosi i propri obiettivi di mitigazione l’abbiano effettivamente fatto: solo 33 su 190.
A pesare sul fallimento di questa COP è intervenuta la stessa presidenza egiziana, che sul fronte della mitigazione ha militato sul fronte più fossilista e mostrandosi vicina al fronte di chi (come la Russia e l’Arabia Saudita) addirittura chiedeva di eliminare la dicitura “combustibili fossili” dal documento finale. Non una gran sorpresa, considerando il ruolo che gli idrocarburi hanno nell’economia egiziana, che si basa per il 90% sul carbone per la produzione di elettricità e ha in programma di aumentare le proprie estrazioni di gas e petrolio.
Il risultato è che nel testo finale si fa sì riferimento alla soglia degli 1,5 gradi, ma non si parla della necessità di raggiungere un picco di emissioni nel 2025, non viene esplicitata la necessità di liberarsi totalmente dei combustibili fossili, e si rimanda la richiesta ai singoli paesi di aggiornare i propri impegni di mitigazione alla prossima COP. Il summit dell’implementazione, insomma, è stato il summit dell’immobilismo. E restare immobili in mezzo alla crisi significa avvicinarsi al baratro: nel documento si ribadisce la necessità di ridurre le emissioni del 43% rispetto al 2019 entro il 2030, gli impegni attuali ci porterebbero a una riduzione di poco più dello 0,3%
Sul fronte del metano, in compenso, qualche schiarita si è intravista:150 paesi (il 95% dei presenti) hanno sottoscritto il Global Methan Pledge, patto istituito a Glasgow da USA e UE per ridurre drasticamente le emissioni di metano, un numero triplo rispetto ai firmatari dell’anno scorso, ma penalizzato dalla mancanza di Cina, Russia e India.
Nel complesso, però, il fallimento è palpabile, e a riconoscerlo è lo stesso segretario ONU Antonio Guterres, che dopo aver dato il via alle danze ricordando che siamo “sparati a tutta velocità sull’autostrada per l’inferno climatico”, in chiusura ha dichiarato che il passo in avanti sul loss and damage è significativo, ma tutt’altro che sufficiente: “Dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni ora, e questo è un tema che questa COP non ha affrontato.”
Adattamento: servono mille miliardi (e una riforma finanziaria globale)
Sul fronte dell’adattamento climatico la situazione non è tanto migliore. Poiché siamo già nel mezzo di una crisi climatica devastante, è necessario prepararsi per gli impatti che il riscaldamento globale sta già esercitando sulle nazioni più vulnerabili, e su quelli ancora più intensi che si manifesteranno nei prossimi anni. Alla COP21 del 2015 di Parigi, le nazioni più ricche si erano impegnate a stanziare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, ma oggi, due anni dopo la deadline fissata, questi aiuti superano a malapena gli 80 miliardi.
Nel documento finale di COP27 si esplicita la necessità di raddoppiare questa cifra e si chiede all’IPCC, l’organo ONU che riunisce migliaia di scienziati da diversi paesi, di stilare un report per la definizione di un Global Goal for Adaptation (GGA). Nel frattempo alcuni paesi si sono già portati avanti, annunciando un aumento del loro contributo: è il caso, tra gli altri, dell’Italia, che nel G20 dell’anno scorso aveva annunciato che intende triplicare la propria parte in termini di finanza climatica, portando il contributo a 1,4 miliardi l’anno per i prossimi 5 anni. In questa quota rientra il “fondo italiano per il clima” accennato da Giorgia Meloni all’inaugurazione della COP, uno strumento di investimento climatico da 840 milioni, dei quali però solo 40 a fondo perduto.
E qui si ritorna al discorso fatto per il loss and damage: la crisi climatica è un problema globale con responsabilità locali, il che significa che l’istituzione di un fondo per l’adattamento dei paesi in maggiore difficoltà non dovrebbe essere inteso come uno strumento finanziario tradizionale: in quest’ottica, infatti, la scelta di fornire aiuti finanziari in forma di prestito significa perpetuare una logica coloniale che punta a giustificare una posizione di subalternità che invece è del tutto indotta. In parole povere: non dobbiamo sborsare miliardi per la finanza climatica perché siamo dei buoni samaritani, ma perché è l’unica maniera per coordinare un’azione climatica globale equa e condivisibile da tutti.
C’è un altro problema, di natura ancor più sostanziale, e cioè che 100 miliardi sono troppo pochi; e lo stesso vale per i 200 miliardi vagheggiati nel testo finale. Adattarsi alla crisi climatica significa implementare sistemi di allerta preventiva per gli eventi estremi capaci di mettere in sicurezza 3 miliardi di persone oggi a rischio, significa passare a un'agricoltura sostenibile e resiliente al clima, significa proteggere e ripristinare milioni di ettari di aree critiche, significa ampliare l'accesso a cibo sano e acqua pulita, significa provvedere alla messa in sicurezza di aree esposte a inondazioni e uragani; in poche parole: significa investire un’enorme quantità di denaro, che le stime più conservative valutano attorno ai 1000 miliardi di dollari. Il tutto senza contare i fondi necessari ai risarcimenti climatici di cui si parlava a inizio pezzo.
Di buono c’è che nel documento finale si riconosce esplicitamente “il diritto a un ambiente sano, pulito e sostenibile, e che per raggiungere una completa decarbonizzazione entro il 2050 sono necessari dai 4000 ai 6000 miliardi di dollari investiti in energie rinnovabili, un tipo di finanziamento che “richiederà una trasformazione del sistema finanziario, delle sue strutture e dei suoi processi.”
Si obietterà che le parole rischiano di rimanere parole, ma è anche vero che fino ad oggi non erano mai state incluse in un documento finale, e ci sono voluti accesi negoziati per ottenerlo. Non sarà ricordata come la COP dell’implementazione, ma forse come la COP dei precedenti importanti.
Biodiversità: la sesta estinzione di massa e la crisi climatica
Mentre i lavori a Sharm entravano nel vivo, la popolazione mondiale ha toccato quota 8 miliardi, il che, visto il contesto, è stato preso come un segnale simbolico: su questo mondo siamo sempre di più e se vogliamo che questa gente possa vivere in condizioni umane è necessario preservare gli ecosistemi naturali ancora integri. Sì, perché se l’essere umano continua indisturbato la sua corsa demografica, lo stesso non si può dire delle altre specie. Da tempo gli scienziati non esitano a parlare di sesta estinzione di massa, sottolineando come la perdita di biodiversità stia impattando anche la vita umana sul pianeta Terra, e arginare il declino delle popolazioni animali e la degradazione degli ecosistemi è fondamentale per mantenere questo pianeta vivibile.
Alla COP27 si è parlato di biodiversità, naturalmente, e particolarmente sentito è stato l’intervento del presidente eletto brasiliano Lula, il quale ha annunciato l’intenzione di porre fine alla deforestazione della foresta pluviale amazzonica, invertendo la rotta rispetto a Bolsonaro, e di voler istituire un ministero dedicato alla popolazione indigena, che com’è noto svolge un ruolo fondamentale nella tutela della biodiversità forestale.
Ma nel suo discorso, Lula non ha mancato di restituire la portata globale del problema, ponendo l’accento sulla necessità di porsi obiettivi rapidi e ambiziosi in termini di mitigazione. A pesare sul futuro della biodiversità, infatti, è innanzitutto la crisi climatica: in uno studio pubblicato su Science nel 2018 si è stimato che se il riscaldamento globale non viene arginato drasticamente di qui alla fine del secolo metà delle specie presenti su questo pianeta si troverà in condizioni climatiche tali da non garantirne la sopravvivenza.
Il fatto che una delle giornate di COP sia stata dedicata alla biodiversità è un passo in avanti importante, ma tutt’altro che sufficiente: l’obiettivo dei negoziati a Sharm era di gettare le fondamenta per un documento vincolante sottoscritto a livello internazionale, un “accordo di Parigi per la natura” che veda ogni nazione fissare degli obiettivi di protezione e ristorazione degli ambienti, da aggiornare con cadenza periodica. Nel testo finale però, di questo accordo non c’è traccia, come non c’è un riferimento chiaro e decisivo a uno strumento finanziario per la tutela della biodiversità: il discorso è rimandato alla Conferenza ONU sulla Biodiversità (COP 15) prevista per dicembre.
Ma anche in questo caso, nel documento appare una novità che potrebbe diventare un altro importante precedente: nel testo viene riconosciuta infatti “la priorità fondamentale di salvaguardare la sicurezza alimentare dei sistemi di produzione del cibo dagli impatti avversi del cambiamento climatico”, riconoscendo nel contempo come crisi climatica e biodiversità siano interconnesse e come questa priorità riguardi innanzitutto la salvaguardia degli ecosistemi esistenti.
Italia, un paese fantasma alla tavola climatica
Piccola nota finale sul debutto italiano ai tavoli climatici. Spoiler: non è andata benissimo. E sto usando un eufemismo di quelli generosi, considerando che il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin ha partecipato al summit per pochi giorni e ha lasciato l’Egitto prima che i negoziati entrassero nel vivo. Il risultato è che, mentre i rappresentati politici degli altri paesi UE lavoravano giorno e notte ai vari tavoli tematici del negoziato, l’Italia ha dovuto affidarsi a delegati senza una chiara investitura politica e andare sostanzialmente a traino dell’UE.
Questo è problematico, e non solo perché l’Italia è uno dei paesi UE già più colpiti dalla crisi climatica, ma anche perché la posizione italiana sul clima è apparsa alquanto ambigua, considerando che questo governo ha da poco dato il via a nuove trivellazioni nel Mediterraneo e si è mostrato più volte intenzionato a considerare il gas fossile come fonte di transizione a tutti gli effetti. Nel poco tempo che ha trascorso a Sharm, Pichetto Fratin non ha mancato di aprire al nucleare (in particolare a quello di quarta generazione) e di ribadire la volontà di considerare il gas fossile come fonte di transizione. Ha parlato anche di rinnovabili, naturalmente, annunciando di voler raggiungere l’obiettivo di 70 gigawatt nel giro di sei anni (anche per ora siamo al di sotto di 1 gigawatt all’anno) e di ridurre del 55% le emissioni entro il 2030. La mancanza di un’idea chiara, in termini di lotta alla crisi climatica, è palpabile innanzitutto per questa disposizione “onnivora” verso la ricetta energetica, quasi per la transizione ecologica bastasse aggiungere energie rinnovabili a quelle fossili senza procedere speditamente a una totale sostituzione.
Sul fronte loss and damage, il nostro ministro aveva espresso una sostanziale contrarietà all’istituzione di un fondo perduto per i paesi più vulnerabili, dichiarando che l’Italia propendeva per uno strumento più ridotto, un fondo assicurativo come lo Scudo Globale proposto al G7 dalla Germania e inizialmente appoggiato dagli Stati Uniti. Come sappiamo, al tavolo dei negoziati la Storia sabato ha preso un’altra direzione. Peccato che a quel tavolo non ci fosse seduto alcun ministro italiano.