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Cambiamenti climatici

Perché in Sardegna nessuno vuole l’energia eolica

Un reportage dall’isola dove da mesi i nuovi impianti di energia eolica sono al centro del dibattito politico e di importanti mobilitazioni di comitati e società civile. Tra proteste, paure, interessi e la necessità di mettere in atto una transizione ecologica rapida e equa.
A cura di Lorenzo Tecleme
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Sardegna, aeroporto di Alghero. Questo piccolo scalo, quasi vuoto d’inverno, d’estate si riempie di turisti che da tutta Europa accorrono a visitare le bellezze dell’isola. All’uscita della struttura da alcuni mesi un’insolita scritta accoglie i visitatori. «A foras le pale», si legge sul muro di un capanno situato proprio di fronte ai terminal. «A foras» è un’espressione in lingua sarda traducibile come «fuori, via», mentre le pale sono quelle dei grandi impianti eolici.

È il primo segno per chi atterra sull'isola, di un fenomeno che negli ultimi mesi ha monopolizzato il dibattito politico in Sardegna. La regione è in subbuglio per il possibile arrivo di una grande quantità di impianti eolici e fotovoltaici. Una tensione che ha portato il governo di Cagliari, appena insediato, a varare un’inedita moratoria sulle rinnovabili. Ma la protesta non accenna a fermarsi.

«La Sardegna come il Delta del Niger»

Luigi Pisci è un’attivista di Isili, un comune di meno di 3000 abitanti nel Sarcidano, centro-sud della Sardegna. Sul suo territorio insistono due diverse proposte di parco eolico. «Nel 2020 sono iniziate a circolare voci riguardanti l’arrivo di pale alte fino a 200 metri», racconta a Fanpage. «Abbiamo iniziato a riunirci, sono nate le prime proteste. E dopo poco ci siamo accorti di non essere soli. Tantissime altre comunità in giro per la Sardegna erano nella nostra stessa condizione».

Terna, il gestore della rete elettrica nazionale, dà notizia di oltre 800 richieste di allaccio nell’isola per nuovi progetti fotovoltaici ed eolici. Se venissero tutte accolte, si arriverebbe a produrre quasi dodici volte il fabbisogno elettrico regionale – al netto dell’elettrificazione. Secondo la Confederazione Nazionale dell’Artigianato, in Italia circa la metà delle proposte diventa davvero un impianto, con un iter che richiede in media sette anni.

Pisci è uno degli esponenti più ascoltati nel mondo dei comitati. «La nostra prima ragione di contrarietà ha a che fare col paesaggio. La Sardegna non è adatta a ospitare impianti così grandi e così numerosi. Ci sentiamo come gli abitanti del Delta del Niger, aggrediti dalla rivoluzione petrolifera» ci spiega. «Poi c’è una questione di modello di sviluppo. La Sardegna si riempirà di mega impianti, e l’energia non servirà a noi, ma verrà esportata verso le industrie del Nord Italia. Non ci guadagneremo nemmeno in bolletta: col prezzo unico nazionale pagheremo l’energia come gli altri – anzi, rischiamo di sostenere pure il costo delle rinnovabili».

Il paesaggio è la prima preoccupazione che emerge in chi si oppone all’arrivo delle pale eoliche in Sardegna. I social isolani pullulano di immagini generate con l’intelligenza artificiale che raffigurano enormi pale proprio di fronte alle bellezze naturali e archeologiche della regione. Ma tra i temi ricorrenti c’è anche il rischio che tutta l’energia venga esportata, la mancata redistribuzione dei profitti, i timori per salute e biodiversità. «Ho letto di preoccupazioni per l’avifauna, e di principio di precauzione per l’eolico in mare se sulle rotte di tonni e cetacei. Noi dell’interno temiamo però sopratutto il fotovoltaico sui campi, che occupa terreno agricolo» spiega l’attivista.

Le alternative: la transizione secondo i manifestanti

«Non siamo contrari alla transizione ecologica», tiene a precisare Pisci. Ma come dovrebbe essere prodotta l’energia sarda per chi si oppone a pale e pannelli?

Maurizio Onnis è sindaco di Villanovaforru, un comune di 700 abitanti nella provincia del sud Sardegna. Già da prima delle sollevazioni anti-eolico si era fatto notare per l’apertura nel suo paese di una delle poche comunità energetiche presenti nell’isola. «Oggi i cittadini di Villanovaforru si producono da soli la loro energia, e quando è in eccesso la rivendono alla rete. Le decisioni si prendono tutti assieme, in assemblea», racconta con orgoglio.

A lui chiediamo di delineare una possibile transizione giusta per la Sardegna. «Bisogna decarbonizzare: chiudere il carbone, la centrale Sarlux, fermare l’arrivo del metano. Non siamo contrari alle rinnovabili, ma alle modalità con cui vengono installate. Nessuno con un po’ di sale in zucca accetterebbe di vedere le pale eoliche sul proprio territorio senza uno straccio di programmazione. Ma se la Regione stabilisse quanta energia ci serve, quanta dobbiamo esportarne verso l’Italia, e se si decidesse democraticamente dove è meglio produrla, allora noi ci staremmo. Non dovrebbe essere il singolo comune a negoziare con la multinazionale. La Regione dovrebbe trattare gli impianti rinnovabili come le miniere: dai il permesso all’azienda proponente in base alle esigenze dei territori, e decidi quanto deve rimanere alla comunità in termini di energia e profitti».

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Dentro il mondo delle proteste convivono anime diverse, e le ricette per la transizione giusta possono cambiare in base all’interlocutore. «Per ora noi siamo per il no secco alle pale, ovunque – ci dice Pisci – poi certo, se le nostre classi dirigenti seguissero le indicazioni di chi studia il consumo di suolo, se riempissero di pannelli tutti i tetti e le aree antropizzate disponibili, e se ancora mancasse un pochino di energia, ecco: a quel punto potremmo riflettere se quel pochino valga la pena farlo con l’eolico. Ma di certo non c’è bisogno di torri alte 200 metri».

Ecologismo lacerato e il ruolo della stampa

Il tema dell’assalto eolico sta lacerando l’ecologismo sardo, creando al contempo alleanze insolite. Da un lato le richieste dei comitati hanno trovato una potente sponda nell’Unione Sarda, il principale quotidiano locale. La figura chiave è quella di Mauro Pili: già presidente di Regione a cavallo del 2000, poi deputato nelle fila di Forza Italia e ora caporedattore del giornale. I suoi appassionati editoriali contro «l’invasione dei signori del sole e del vento» e a favore dell’arrivo del metano, per Pili la vera opzione energetica da perseguire, hanno un enorme impatto sul dibattito pubblico.

Nonostante la diversa provenienza politica – i comitati sono spesso guidati da attivisti progressisti, mentre l’Unione è un quotidiano conservatore – i rapporti tra manifestanti e principale gruppo mediatico sardo sono molto buoni, come testimoniato dalla media partnership del quotidiano a raduni e manifestazioni. «Anche Pili e il suo giornale rappresentano un pezzo della società sarda contraria all’aggressione eolica. Ciò non toglie nulla alla nostra indipendenza», spiega Pisci, mentre per Onnis «il punto è usare i media, e non farsi usare».

Dall’altro lato, l’ecologismo storico rappresentato dalle grandi associazioni- Legambiente, Greenpeace, WWF – ha deciso di tirarsi fuori dalla mobilitazione. Le tre organizzazioni hanno acquistato una pagina sui quotidiani locali per spiegare la loro posizione: non c’è nessun assalto rinnovabile, gli impianti non danneggiano biodiversità e ambiente ma contribuiscono all’economia sarda. Un’analisi diammetralmente opposta a quella dei comitati, dell’Unione e anche della Regione. «La moratoria? Solo per i combustibili fossili» si legge. Il riferimento è alle infrastrutture per il gas metano attualmente in costruzione, a cui la giunta regionale è favorevole. «La siccità, ormai cronica anche a causa del riscaldamento globale, distrugge il paesaggio, l’economia, l’agricoltura e l’allevamento, il turismo. Questa è la premessa del nostro ragionamento», ci dice Marta Battaglia, presidente di Legambiente Sardegna. Per Legambiente i comitati non hanno torto nel contestare alcuni singoli impianti o l’assenza di programmazione, ma sbagliano l’analisi generale.

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«Anche noi siamo critici su alcuni progetti, come quello di Isili. Ma contestiamo la narrazione che viene fatta. Le richieste di allaccio – quelle famose 800 pratiche – non corrispondono a impianti davvero in realizzazione. Non possiamo gridare alla devastazione a partire da numeri non credibili. Lo Stato ha previsto per la Sardegna 6.2GW di nuova potenza rinnovabile al 2030. Bene, se anche facessimo 10GW sarebbe sufficiente appena l’1% del territorio sardo. Poi certo, gli impianti si vedranno, ma questo è inevitabile per qualunque infrastruttura».

Anche la politica si è accorta della questione. A maggio la neo-eletta presidente Alessandra Todde, di centrosinistra, ha varato una moratoria sull’energia pulita: per diciotto mesi stop all’installazione di eolico e fovoltaico, se consumano suolo. L’idea è quella di guadagnare tempo per riscrivere le regole, individuando le aree idonee agli impianti. Non abbastanza per i comitati, che chiedevano un blocco più duro, esteso a tutto l’iter autorizzativo. Già troppo per il governo nazionale, che pochi giorni fa ha impugnato la decisione di fronte alla Corte Costituzionale.

Cosa dice la scienza?

«Partiamo dalla base: la Sardegna, come tutte le regioni italiane, è molto lontana dall’abbandono del fossile. E questo è un problema». A parlare ai microfoni di Fanpage e Gianluca Ruggieri, ingegnere energetico in forze all’Università dell’Insubria. Ruggieri è tra i fondatori di èNostra, la cooperativa che ha fornito supporto tecnico alla comunità energetica di Villanovaforru voluta dal sindaco Onnis. I dati danno ragione al ricercatore. A causa del suo antiquato sistema elettrico, l’isola ha emissioni pro-capite più alte della media nazionale. Il 75% della corrente è ancora prodotta coi combustibili fossili. Non tutta è consumata in loco: il 40% circa viene esportata verso la penisola. Il governo ha promesso di chiudere il carbone entro il 2028 – nel resto d’Italia lo stop è previsto l’anno prossimo – ma a sostituirlo sarà in buona parte il già citato metano.

«Nessuno studio, in nessuna parte del mondo, sostiene sia possibile fare la transizione senza aggiungere nuovo eolico», ci spiega Ruggieri. Alcuni esponenti dei comitati, però, propongono addirittura di iniziare a smontare una parte di quello esistente. «Permettetemi una battuta: ha senso sì, ma solo per sostituirlo con modelli più grandi. Le dimensioni contano: una pala alta il doppio produce il triplo di energia. Servono più torri e più alte». E per quanto riguarda il solare? «È bene mettere i pannelli su tutti i tetti in cui è possibile farlo. In Francia hanno imposto a tutti i grandi parcheggi la copertura fotovoltaica, in Germania hanno liberalizzato il solare da balcone. Ma dobbiamo essere chiari: anche così non potremo rinunciare al fotovoltaico a terra. Anche perché spesso i tetti sono troppo fragili o non a norma per i pannelli».

Sui rischi per la biodiversità e la salute legati alle pale eoliche, il ricercatore tranquillizza. «Si calcola che l’impatto sugli uccelli sia complessivamente pari allo 0,01% della mortalità complessiva indotta dalle attività umane. Infinitamente più impattanti sono le attività agricole, l’inquinamento di suoli e acque superficiali, oltre che animali domestici come i gatti, veri e propri stragisti di uccelli. Gli impatti dell’eolico offshore sulla vita marina sono ancora sotto studio, anche se appaiono molto limitati. In particolare, nessun cetaceo sembra essere mai morto o spiaggiato a causa di impianti eolici in mare. Per quanto riguarda la salute umana, beh, basta dire che nonostante se ne parli da vent’anni non esiste nessuno studio scientifico che dimostri il pericolo per le persone. Solo se si è estremamente vicini c’è l’impatto del rumore – esattamente come avviene per le strade e le ferrovie». Secondo Ruggieri, se si puntasse su comunità energetiche diffuse e su una società pubblica che produca energia pulita si potrebbe realizzare una transizione ecologica più giusta ed efficace. «Le comunità energetiche sono bellissime proprio perché sono comunità, si gestiscono democraticamente. Certo, non bastano da sole. In molte parti d’Europa però – Scozia, Barcellona, Amburgo – compensano le autorità, installando direttamente i grandi impianti».

Francesca Andreolli è senior researcher presso il think-tank ECCO e tra le autrici di uno studio commissionato dal WWF nel 2019 sulla decarbonizzazione del sistema elettrico sardo. «Nel nostro lavoro evidenziamo come l’arrivo del metano sia anacronistico» spiega. «Noi abbiamo simulato il sistema energetico sardo. Entro il 2030 è possibile abbandonare il carbone senza ricorrere al gas installando i 6.2GW di rinnovabili previsti dai piani del governo. Al 2050 bisognerà arrivare a 10GW di eolico, in-shore e off-shore, e 7GW di fotovoltaico. Nel modello diamo priorità ai pannelli su tetti, che quindi rappresentano ben 4 dei 7GW solari previsti. Ovviamente bisogna sommare a tutto questo le infrastrutture di accumulo, l’elettrificazione, l’efficienza e – dopo il 2030 – l’idrogeno». Lo studio di Andreolli e dei suoi colleghi prevede anche che venga costruito un cavo sottomarino che scambi energia tra Sardegna e Sicilia, il Tyrrenian Link. Si tratta di un progetto attualmente in fase di costruzione, ma trova l’opposizione netta dei comitati. «È un’infrastruttura fondamentale nei nostri scenari» spiega la ricercatrice. Andreolli è invece scettica sulla moratoria: «blocchi le rinnovabili mentre dai l’avvallo al gas fossile: che senso ha?».

L’isola in fiamme

L’aumento delle temperature e l’arrivo della stagione degli incendi non hanno fermato le proteste. Anzi, nelle ultime settimane la tensione sull’isola è salita. Sulla cosa est gli espropri per la costruzione dell’elettrodotto hanno trovato l’opposizione di centinaia di attivisti. Ad ovest, nel porto di Oristano, l’arrivo di un carico di pale eoliche ha portato a duri scontri con le forze dell’ordine. «Ormai in Sardegna c’è il terrore delle energie rinnovabili» conclude l’attivista Pisci. «Non è quello che volevano i comitati: sono le classi dirigenti ad aver scelto il volto peggiore della transizione. Noi cerchiamo solo di riportarla nell’alveo della democrazia».

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