Perché in Lombardia la gestione dell’emergenza coronavirus è stata un disastro (INCHIESTA)
A due mesi dall'individuazione del primo caso di coronavirus in Italia, il nostro paese conta più di 180 mila contagi totali e circa 25 mila deceduti ufficiali, di cui più della metà solo in Lombardia. Come è potuto succedere che l'Italia raggiungesse uno dei più alti tassi di letalità per coronavirus? Oggi, in attesa di uscire dalla “Fase 1”, possiamo provare a rispondere ad alcune domande, per capire cos’è che non ha funzionato a partire dalla regione più colpita.
Perché non è mai stato individuato il Paziente 1?
L’emergenza sanitaria che ha sconvolto il nostro paese inizia il 21 febbraio a Codogno, un paesino in provincia di Lodi a 50 km da Milano, dove per la prima volta un paziente italiano risulta positivo al coronavirus. È Mattia, un giovane di 38 anni, che passerà alla storia come il “Paziente 1”. Due giorni dopo, il 23 febbraio, il governo istituisce la zona rossa intorno a Codogno, mettendo in quarantena circa 45 mila persone con il divieto di entrata e di uscita da quei territori.
Il virus, però, si era già diffuso fuori dal lodigiano, lo testimoniano i numerosi pazienti che prima di quel 21 febbraio si erano recati in ospedale con i sintomi del Covid, anche se verranno diagnosticati solo successivamente. A spiegarlo è Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università di Milano e direttore sanitario dell'Irccs Galeazzi:
“Il virus in Nord Italia c’era dalla fine di dicembre, dall’inizio di gennaio, quindi il “Paziente 1” poteva essere il paziente 200, o chissà”
Per mesi l’Organizzazione mondiale della sanità e il Ministero della salute italiano, che ne ha seguito le indicazioni, hanno spiegato che era possibile riscontrare un caso di coronavirus su un paziente nel caso di “Infezione respiratoria acuta grave, con febbre e tosse che ha richiesto il ricovero in ospedale” solo se unita ad un’altra specifica condizione: “Storia di viaggi a Wuhan, provincia di Hubei, Cina, nei 14 giorni precedenti l'insorgenza della sintomatologia”.
Questa è la ragione per la quale, per settimane i pazienti con disturbi respiratori ma non direttamente riconducibili alla Cina, non sono stati sottoposti a tampone e quindi lasciati liberi di circolare anche se potenzialmente contagiosi. Lo spiega Angelo Pan, virologo e direttore del reparto di Malattie infettive dell’ospedale di Cremona:
“I criteri diagnostici dell’Oms erano un quadro di polmonite grave e un recente viaggio in Cina, senza quel dato epidemiologico non veniva neanche in mente”
Soltanto il 22 febbraio, quando il caso del “Paziente 1″ di Codogno diventa di dominio pubblico, il Ministero della salute pubblica una circolare nella quale viene data una nuova indicazione per la diagnosi che amplia le possibilità di riscontro.
Perché non è stata chiusa l’area di Alzano e Nembro?
Il vero “Paziente 1”, quindi, non verrà mai identificato e Codogno non sarà l’ultimo focolaio a svilupparsi nel nostro Paese. Il 23 febbraio nell’ospedale di Alzano Lombardo viene individuato il primo caso di coronavirus nella bergamasca. L’ospedale di Alzano viene chiuso, ma a differenza di quello di Codogno riapre dopo poche ore. Pazienti e loro familiari, oltre al personale sanitario, in quei giorni si infettano proprio in ospedale, ma verranno lasciati liberi di circolare senza essere sottoposti al tampone. Lo spiegano le innumerevoli testimonianze raccolte sul caso, come quella di Francesco, che in quei giorni ha perso entrambi i genitori:
“Mio papà stesso sono certo che ha preso il virus nell’Ospedale di Alzano perché usciva solo per andare a trovare mia mamma in ospedale”
Ma quello di Alzano è solo il primo di una serie di errori che porteranno la provincia di Bergamo ad essere tra le più colpite dal virus. Il 3 marzo, infatti, l’Istituto superiore di sanità chiede che Nembro ed Alzano vengano dichiarate zone rosse perché ci sono più contagi di Codogno, ma, nonostante fosse già tutto predisposto, né il Governo, né la regione Lombardia autorizzano la chiusura.
“Non è stata fatta la zona rossa a Nembro non glielo posso dire io, lo dovete chiedere al Governo, il potere di fare la zona rossa ce l’aveva il Governo, non certo noi perché l’avevamo chiesta”
Si difende Fabrizio Sala, vicepresidente della Regione. In realtà, però, anche la regione Lombardia aveva il potere di dichiarare la zona rossa, ma a differenza di altre regioni, dall’Emilia Romagna fino alla Calabria, ha deciso di non esercitarlo.
Proprio in quella settimana, Confindustria spinge affinché le loro imprese non vengano intaccate dalle restrizioni. A spiegarlo è ancora il vicepresidente della regione Lombardia: “Confindustria ha chiaramente chiesto di non chiudere tutte le sue attività”.
Nell’area della bergamasca e del bresciano i lavoratori in quelle settimane continueranno a muoversi come se niente fosse, spesso senza avere dispositivi di protezione individuali. Eppure il modello delle zone rosse era stato un modello vincente, come ci spiega Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell'ospedale di Padova, parlando del caso della zona rossa di Vo’ Euganeo in Veneto:
“A Vo’ è successo che tutte le persone positive e asintomatiche sono rimaste in casa, mentre tutto il resto della popolazione poteva uscire, da allora non c’è stato nessun caso di trasmissione a Vo’, forse l’unico posto dove la pandemia è stata completamente bloccata”
Perché gli ospedali sono diventati diffusori del contagio?
Il 17 marzo, quando l’epidemia era già conclamata, gli operatori sanitari ammalati erano 2629. Nei trenta giorni successivi il numero di medici, infermieri e operatori sanitari che hanno contratto il virus è aumentato in maniera vertiginosa arrivando a 17300 positivi.
Il 21 marzo, i medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, una delle strutture più investite dalla pandemia, hanno pubblicato uno studio condiviso con la comunità scientifica su quanto avevano avuto modo di imparare nelle prime settimane di emergenza: “Stiamo imparando che gli ospedali possono essere tra i maggiori trasmettitori del Covid-19 in quanto velocemente popolati da pazienti infetti, hanno facilitato la trasmissione ai pazienti non infetti. Il personale sanitario è portatore asintomatico, o malato ma senza riscontro”. Sono stati proprio i dottori ad aver immediatamente capito il rischio contagio che si poteva consumare nelle corsie spiegando che “Negli ospedali la protezione del personale dovrebbe essere prioritaria. Non dovrebbero esserci compromessi nei protocolli, i dispositivi devono essere reperibili”.
Gli asintomatici sottovalutati nei primi giorni di diffusione del virus e la scarsità di dispositivi di protezione, hanno contribuito alla trasmissione del Covid-19 anche e soprattutto nei luoghi di cura. È stato così che nel giro di poche ore, gli ambulatori e le corsie degli ospedali lombardi si sono trasformati in veri e propri “cluster”, luoghi infetti da cui il virus si è diffuso con particolare velocità investendo gli operatori sanitari. A spiegarlo è il professor Andrea Crisanti, virologo dell’Università di Padova:
“Il personale medico è in prima linea e chiaramente è stato il primo a essere stato investito da un grande numero di pazienti, probabilmente inconsapevole che fossero portatori del virus. Quindi non è da sorprendersi che ne abbiano pagato per primi le conseguenze”.
Dall’inizio dell’epidemia ad oggi in tutta Italia sono deceduti 145 medici. I più colpiti della categoria sono stati i medici di famiglia. Solo a Bergamo si è ammalato un medico di base su cinque.
“È una cosa immane, sono caduti non vittime della loro età ma sono caduti sul campo, la categoria è stata lasciata sola in prima linea a fronteggiare la diffusione della malattia con pochissimi strumenti in mano.”
È l'allarme che arriva da Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo, che per settimane ha contestato tutti i limiti del sistema sanitario territoriale. I medici hanno denunciato che per settimane non hanno avuto guanti, mascherine e camici, perché nessuno glieli ha forniti.
Perché il numero dei morti ufficiali non è quello reale?
Secondo i dati forniti quotidianamente dalla Protezione civile italiana, ad oggi soltanto in Lombardia si registrano oltre 13 mila decessi da coronavirus. Un dato che però è stato ripetutamente contestato dai sindaci lombardi che, avendo riscontri diretti dalla anagrafi, hanno potuto riscontrare dei gravi errori di conteggio. Tra i primi ad aver sottolineato il calcolo per difetto è stato Giogio Gori, sindaco di Bergamo:
"Dall'1 al 24 marzo i decessi solo nella città di Bergamo sono stati 446, 348 in più della media degli ultimi anni, mentre quelli ufficialmente deceduti per coronavirus sono solo 136, ci sono 212 morti in più che non vengono conteggiati, le stime della regione Lombardia sono inattendibili".
In Lombardia si stimano migliaia di “Morti fantasma”, persone che sono decedute per coronavirus ma che, non essendo state precedentemente sottoposte a tampone non vengono classificate come vittime del Covid.
Perché nelle case di riposo è successa una strage?
A non rientrare nelle stime ufficiali ci sono anche gli anziani deceduti nelle case di riposo. Nella sola provincia di Bergamo sono morti 1600 ospiti, cioè un quarto dell’intera popolazione residente nelle Rsa.
"A non esser stata protetta dal coronavirus è stata proprio la popolazione più debole e indifesa, quella degli anziani nelle case di riposo. Una vera e propria strage diffusa su tutta la regione Lombardia che poteva essere evitata."
Ha dichiarato Roberto Rossi, segretario Fp della Cgil di Bergamo, che ha denunciato che qualche casa di riposo ha chiuso i centri diurni integrati per poi scoprire che Ats (Agenzia di tutela della salute) li ha richiamati costringendoli a stare aperti. Infatti, l'8 marzo 2020, la Giunta della regione Lombardia, guidata dal presidente della Lega Attilio Fontana, ha approvato un documento che incoraggiava il ricovero di pazienti Covid-19 in via di guarigione all’interno delle Rsa della regione, mettendo a rischio persone anziane e già debilitate.
Così nella deliberazione n.XI/2906:
“A fronte della necessità di liberare rapidamente posti letto di Terapia Intensiva e Sub Intensiva e in regime di ricovero
ordinario degli ospedali per acuti, occorre mettere a disposizione del Sistema Regionale i posti letto delle “Cure extra
ospedaliere”, cure intermedie intensive e estensive, posti letto in Rsa”.”
Perché non si fanno i tamponi che servirebbero?
Il numero reale delle vittime da coronavirus quindi è sottostimato perché non si fanno abbastanza tamponi, il che comporta anche l'impossibilità di avere una mappatura chiara del contagio. Lo spiega il professor Crisanti:
“Idealmente bisognerebbe fare il tampone a tutte le persone che accusano una sintomatologia di questo tipo, non si fa perché probabilmente non ci sono i mezzi per poterlo fare in questo momento”
A confermarlo è il vicepresidente della regione Lombardia Fabrizio Sala:
“Noi facciamo cinquemila tamponi al giorno, è un problema di reagente non c’è sufficiente produzione. I reagenti che noi abbiamo sono i reagenti che hanno in proporzione tutte le altre regioni”.