Quando ero giovane, diciamo in età scolare, esisteva una sola categoria più disgraziata di noi figli unici, ed erano i figli dei divorziati. Eravamo a cavallo tra vecchio e nuovo millennio e, sebbene fossero trascorsi almeno vent’anni dall’approvazione della legge sul divorzio, sancire il termine di un matrimonio e dividere la famiglia continuava a essere percepito come un delitto, qualcosa di cui vergognarsi e sentirsi in colpa.
Un fallimento pubblico insomma, la cui onta si estendeva inevitabilmente alla prole che, per statuto, diventava problematica (come se, invece, tutte le famiglie “normali” non fossero unite anche da squilibri e disfunzioni, e come se i figli dei nuclei tradizionali fossero sempre campioni di benessere psichico, ma soprassediamo). Per dovere di narrazione, devo precisare che sono nata e cresciuta al Sud Italia e che, invece, le mie amiche milanesi mi hanno raccontato storie familiari differenti.
Fatto sta che da allora sono passati altri vent’anni e persiste l’idea che la cosa migliore per i figli sia crescere con entrambi i genitori (secondo alcuni, esclusivamente maschio e femmina). La pedagogia non è la mia area di competenza, ma così, a naso, posso immaginare che sì, la separazione dei genitori sia un evento molto complesso da gestire e digerire; ma posso pure immaginare che crescere tra due adulti che non riescono a venire a capo dei propri conflitti, individuali e di coppia, e che non riescono a garantire una condizione di sufficiente armonia per il minore, sia altrettanto dannoso.
Francamente, in questi casi, la separazione è uno strumento indispensabile di civiltà, per tutti. Certo, lo capisco, per moltitudini umane è inaccettabile l’idea che le relazioni possano finire, siano esse familiari, amicali, romantiche, professionali, erotiche, e via dicendo. Pur tuttavia è così, dobbiamo farcene una ragione.
Il motivo per cui vi racconto questa storiella, però, è che stamattina, come ogni mattina, dopo aver espletato le quotidiane funzioni fisiologiche e familiari, ho aperto i social media che, in altri termini, vuol dire immolare il mio umore sull’altare dell’algoritmo. L’algoritmo decide ogni santo giorno se potrò essere contenta di una buona notizia (e questo succede più o meno mai), oppure turbata, indignata, inferocita, affranta, frustrata, spaventata per una pessima notizia. E devo dire che in questo periodo ce ne sono molte di pessime notizie. E forse anche per questo, proprio non avevo voglia di inciampare nello spot di Esselunga, e nelle polemiche relative.
Facciamo un passo indietro e spieghiamo che nel 2023, nel nostro paese, la nota catena GDO realizza una reclame, in cui mette in scena non la tipica famiglia del Mulino Bianco che ha accompagnato la nostra crescita e che ha viziato il nostro immaginario per decenni, bensì una famiglia contemporanea: ci sono una mamma e un papà separati, e una figlia unica che prova – con un espediente ingenuo, infantile per l’appunto – ad addolcire la relazione tra i due, che ci appare comunque piuttosto civile (perlomeno nel Paese in cui troppo spesso una donna muore ammazzata dal partner o dall’ex), sebbene non particolarmente calorosa, dato che tutto si limita a uno sguardo dall’alto in basso, dalla finestra al marciapiede, e viceversa.
La bambina prova a creare un’occasione di comunicazione positiva tra le due figure di accudimento, e nel farlo veicola un messaggio elementare: io, figlia, sarei felice se tu e la mamma andaste d’accordo e tornaste a volervi bene, possibilmente regalandovi articoli ortofrutticoli – notoriamente insipidi – dell’Esselunga.
Lo spot genera molti commenti, naturalmente polarizzati, dunque fa benissimo il suo mestiere: far parlare di sé. Tra le principali critiche mosse: si tratta di una rappresentazione stereotipata della realtà; attribuisce alla bambina un ruolo che non dovrebbe avere (la mediazione tra gli adulti); ci fa empatizzare più col padre che con la madre.
D’accordo, ma quale rappresentazione di pochi secondi non è stereotipata? Quale storia di famiglia può restituire un ritratto universalmente inclusivo di tutte le realtà esistenti, tanto più se è veicolata attraverso uno spot pubblicitario, mica in 500 pagine di Jonathan Franzen? Forse sarebbe stato più realistico rappresentare una famiglia unita, in cui si va a fare la spesa tutti insieme, magari dopo una bella lite furibonda, consumata sotto gli occhi di una figlia, che giustamente ora fa capricci ingovernabili perché risponde ai malumori che respira, il tutto mentre la madre pesa 4 pomodori insalatari e scopre che costano circa 70 centesimi l’uno, e dice “Minchia!”, e l'altro annuisce pensando che anche quel giorno toccherà a lui pagare, del resto lei è precaria e sta aspettando il pagamento a 60 giorni, che poi diventano 90, se non 120, e ha un reale problema di liquidità, magari proprio nella settimana in cui la banca preleverà dal conto corrente co-intestato la rata del mutuo, e siamo solo all’inizio del mese, e poi c’è l’asilo, ovviamente privato, e pure a volersi separare perché non ci si sopporta più, dove cazzo si trovano i soldi per farlo? E sapete quanto sta bene una famiglia che fatica a sbarcare il lunario? Sapete quanto bene faccia a una relazione di coppia discutere di soldi?
Ecco, se devo trovare una cosa che mi triggera – come dicono i contemporanei – in questo spot, è il suo classismo. Ciò che trovo irrealistico, o fortemente elitario, è questo immaginario in cui una mamma separata vive in un appartamento ampio, in un palazzo d’epoca, con un soggiorno con doppio o triplo punto luce (non l’ho capito), in un quartiere borghese, di quelli alberati in cui le case costano almeno 8.000 euro al metro quadrato; e un padre separato arriva in camicia, guidando un’automobile che forse può ancora circolare liberamente a Milano, dunque è abbastanza nuova, senza avere l’aria di uno che è finito a vivere in un sottoscala, o a dormire nell'auto suddetta, come si narra accada ai padri separati (non ne so abbastanza per confermare o smentire la tesi). Ciò che mi triggera è che divorziare sia un privilegio, se mai.
Detto questo, però, è uno spot. Avete presente, gli spot? Non dico che dobbiate aver speso anni di vita per conseguire una laurea in Comunicazione, per carità, ma stiamo parlando di una pubblicità retorica, uno strumento del mercato, e sì certo che la pubblicità concorre a definire l’immaginario collettivo (viceversa le donne non dilapiderebbero le proprie finanze in trattamenti estetici o dimagranti da tempo immemore), tuttavia è uno spot.
Uno spot che si rivolge a un paese in evidente recessione civile, il cui organo preposto all’elaborazione della complessità è l’intestino, governato dalla classe politica più a destra degli ultimi cent’anni. Il problema forse non è lo spot, ma siamo noi, il target, i consumatori, gli utenti, gli inquinanti produttori di opinioni su tutto, che ci indigniamo per qualsiasi cosa, dallo spot del supermercato agli stupri di gruppo, dal remake di un classico Disney alle condizioni nei CPR, dai dati di vendita del libro scritto da un Generale paracadutista alle dichiarazioni di una cantante di cui conosciamo meglio le natiche che la produzione artistica.
Il problema, forse, è che siamo dipendenti dalla nostra dose quotidiana di indignazione, quella sostanza stupefacente che ci fa sentire utili alla società, mentre ce ne stiamo sulla tazza del cesso a scrivere cose argute e, per carità, talvolta condivisibili, su uno spot pubblicitario, dandogli peraltro ancora più rilievo e più visibilità di quella che avrebbe avuto altrimenti (so che sembra assurdo, ma alcuni di noi non guardano più la tv generalista).
Ecco, distinguere i piani delle cose è una facoltà fondamentale cui abbiamo misteriosamente rinunciato. Non cogliamo più il confine tra il marketing e la cultura, tra i politici e gli influencer, tra la rappresentazione e la cittadinanza.
Se per esempio qualche anno fa, quando andavano di moda gli spot inclusivi con le famiglie allargate e non eteronormate, non ci fossimo illusi che il mondo fosse come nella pubblicità; se avessimo compreso lo scarto che intercorre tra la realtà e la finzione, tra i fatti e la propaganda, tra le notizie vere e false, forse oggi vivremmo in un clima differente. Metereologico, politico e culturale. Chissà. E comunque, come diceva un amico saggio: "La storia non si fa con i se e con i ma".