Un passo fondamentale per affrontare l’emergenza climatica in modo razionale e collettivo consiste nello smontare i tanti falsi miti che contaminano il nostro sguardo sul mondo; uno di questi ha un ritornello molto orecchiabile, che fa più o meno così: “Su questo pianeta siamo già troppi, e presto non ci sarà cibo a sufficienza per tutti". La realtà è che il nostro pianeta è in grado di sfamare ben più dei 9,8 miliardi di persone previsti di qui al 2050, e se oggi la fame nel mondo è un problema in crescita, se il mondo sta entrando in una crisi alimentare senza precedenti, non è certo per mancanza di risorse, quanto perché quelle risorse sono distribuite in maniera incredibilmente iniqua; e perché in buona parte vengono sprecate da un sistema che privilegia il profitto a discapito della sostenibilità.
Se andiamo a vedere quante persone sono morte per carestia nell’arco degli ultimi 100 anni, ci accorgeremo che se negli anni ‘60 se ne contavano 16,6 milioni, nel primi dieci anni del 2000 la cifra è scesa a 2,8 milioni, questo nonostante la popolazione mondiale in quel periodo fosse passata da 3 a 7 miliardi. Nel quinquennio tra il 2011 e il 2016 la quota di morti per carestia si è ridotta in modo ancora più significativo, assestandosi intorno alle 255.000. Qualcuno potrebbe obiettare che le carestie sono eventi eccezionali, imputabili a ventaglio di variabili che non contempla solo la disponibilità alimentare, ma anche e soprattutto i conflitti in corso nei vari territori, e avrebbe ragione. Eppure, se andiamo a vedere quante persone ogni anno muoiono per malnutrizione, ossia a causa di un insufficiente apporto di calorie e proteine, si riscontra una curva analoga: nel 1995 erano 640.000; nel 2019 erano scese a 212.000. A corroborare ulteriormente questa tendenza ci sono i dati che arrivano dalla FAO e che mostrano chiaramente come l’apporto calorico giornaliero negli ultimi 50 anni sia aumentato stabilmente in tutti i continenti e in tutte le fasce demografiche.
Quello che possiamo concludere, dall’analisi di questi dati, è che l’aumento della popolazione globale sia stato accompagnato da un aumento ancora più significativo della nostra capacità di produrre cibo. Eppure, a partire dal 2020, queste curve hanno cominciato a invertire la tendenza. Perché? Un neo-malthusiano potrebbe sostenere che abbiamo raggiunto la soglia limite oltre la quale la sovrappopolazione diventa ingestibile dal punto di vista alimentare. Ma la realtà, come vedremo, è molto più complessa di così.
La guerra ha esposto un sistema malato
Da quando la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, lo scorso 24 febbraio, a chiunque si occupi di sicurezza alimentare hanno cominciato a tremare i polsi. Uno degli effetti più disastrosi, e spesso sottovalutati, della guerra in Ucraina riguarda proprio la crisi alimentare globale. Il fatto è che Russia e Ucraina, ad oggi, sono due dei più importanti esportatori di grano, cereali, mais e semi di girasole. Basti pensare che il 26,8% dell’orzo e il 34% del grano esportato nel mondo arriva da questi due paesi, e che ben 36 tra i paesi afflitti da insicurezza alimentare dipendono da queste importazioni per oltre il 10 per cento del proprio fabbisogno. Ci sono poi nazioni come Eritrea, Mauritania, Somalia e Tanzania che da anni versano in condizioni di crisi alimentare, spesso innescata da conflitti profondi, e dipendono completamente dalle importazioni di grano russo e ucraino.
Prima della guerra i cereali ucraini venivano trasportati quasi unicamente attraverso il Mar Nero, ma il blocco navale imposto dalla Russia ha reso queste esportazioni in larga parte impossibili (una situazione che potrebbe sbloccarsi, grazie al recente arrivo di navi estere attraverso il canale Danubio-Mar Nero). Di fatto, fatto al momento l’Ucraina è in grado di trasportare al di fuori dei propri confini solo 2 milioni di tonnellate di grano al mese, praticamente un terzo rispetto a prima della guerra. Da mesi l’esercito russo bombarda deliberatamente i depositi di prodotti agricoli, nelle ultime settimane ha cominciato a dare alle fiamme intere coltivazioni; questo unito al fatto che l’Ucraina quest’anno ha dovuto rinunciare a circa il 30% della semina abituale, aiuta a comprendere l’aumento dei prezzi che sta alimentando la crisi alimentare.
Negli ultimi mesi, il prezzo dei prodotti alimentari, già aumentato durante i due anni di pandemia, ha sfondato i record storici, e a giudicare da alcune agenzie di rating sembrerebbero destinati ad aumentare costantemente fino almeno al 2024. Ma sarebbe un errore imputare questa crisi al Covid o alla guerra: le curve di sicurezza alimentare avevano già cominciato a invertirsi ben prima del 2020, e sono imputabili a un sistema imperniato sulla massimizzazione del profitto e sulla speculazione. Il Covid e il conflitto in Ucraina ne hanno semplicemente esposto le crepe.
Si coltiva di tutto, tranne il cibo
Se il prezzo di alcuni prodotti agricoli si è impennato, è anche perché alcune varietà vengono sempre più utilizzate per produrre biocarburanti, una tendenza che la guerra in Ucraina ha accentuato. I dati più recenti forniti dalla European Federation for Transport and Environment rivelano che l’aumento del prezzo degli olii vegetali sia per il 28% imputabile al loro sfruttamento per la produzione di biocarburanti, e un discorso simile vale per i prezzi del grano (20%) e dello zucchero (40%). Per ottenere la quota di biodiesel e bioetanolo consumata nella sola Unione Europea vengono impiegati 14 milioni di ettari di terreno coltivato: l’Europa brucia ogni giorno 10.000 tonnellate di bioetanolo, praticamente l’equivalente di 15 milioni di pagnotte. Il tutto per produrre delle varietà di combustibile che vengono spacciate come più sostenibili ma che in realtà, considerando la deforestazione necessaria ad ampliare le coltivazioni, finisce per causare più emissioni dei carburanti fossili.
Per capire cosa abbia a che fare questo discorso con la crisi alimentare globale, è sufficiente considerare che, stando ai calcoli del think thank Green Alliance, se smettessimo di produrre biodiesel e bioetanolo quelle coltivazioni potrebbero essere utilizzate per sfamare 1.9 miliardi di persone. Più del doppio, dunque, degli 800 milioni di persone che oggi vivono in condizioni di denutrizione o scarsità alimentare, e poco meno dei 2,3 miliardi di persone che ogni giorno incontrano difficoltà a reperire cibo a sufficienza per saziarsi.
Ma non è finita: un discorso analogo infatti riguarda le coltivazioni unicamente dedicate al foraggiamento di animali da allevamento. E non si tratta di una percentuale ridotta: nella sola Unione Europea più del 65% dei cereali prodotti sono destinati all’alimentazione animale, e a livello globale questa percentuale ormai supera il 50%. Uno studio condotto dalla ricercatrice Hanna Ritchie nel 2021 ha rivelato che se, ipoteticamente, l’intera popolazione mondiale passasse a una dieta vegetale, avremmo il 75% di terreni in più da dedicare alla coltivazione di prodotti agricoli per il consumo diretto.
Se a queste considerazioni aggiungiamo che un terzo di tutto il cibo prodotto annualmente viene perso o sprecato, diventa chiaro come la crisi alimentare globale non abbia tanto a che fare con una scarsità di risorse, quanto con il modo in cui vengono gestite.
E la crisi climatica?
La crisi climatica naturalmente sta andando a premere sulle crepe ormai esposte del sistema agroalimentare. L’andamento sempre più erratico delle precipitazioni, unito all’aumento di fenomeni meteorologici estremi come ondate di caldo, tormente, episodi siccitosi, inondazioni e incendi, sta creando enormi problemi in paesi come Afghanistan, Etiopia, Yemen, che oltre a basare buona parte della propria economia sull’agricoltura, sono anche tra i più colpiti dalla scarsità alimentare. Le tremende ondate di caldo che hanno soffocato l’India lo scorso maggio hanno devastato interi raccolti, costringendo il governo di Nuova Delhi a bandire le esportazioni, il che ovviamente ha contribuito a far levitare ulteriormente i prezzi. Ma attenzione: associare queste problematiche a fenomeni estremi lascia sperare che si tratti di situazioni emergenziali isolate, quando in realtà si sta delineando uno scenario di degradazione costante, al punto che uno studio della Nasa ha previsto che di qui al 2030 i raccolti di mais e grano si ridurranno del 24% a livello globale.
Il problema non riguarda solo i cereali: la siccità che ha colpito il Brasile nel 2021 ha portato a un aumento del 70% del prezzo del caffè; sempre nel 2021 l’industria vinicola francese ha perso quasi 2 miliardi di euro a causa degli scarsi raccolti; intanto la produzione di banane è messa a rischia da un nuovo tipo di fungo che prolifera in condizioni di alte temperature.
È chiaro allora che per affrontare questa crisi alimentare sia necessario riformare un sistema agroalimentare palesemente insostenibile, e riconfigurarlo in modo che possa sfamare una popolazione in crescita in un mondo sempre più caldo. Per fare ciò è fondamentale ridurre drasticamente il numero di allevamenti intensivi e dedicare buona parte delle coltivazioni oggi sfruttate per biocarburanti e foraggiamento alla produzione di varietà destinate a un consumo diretto; è necessario incrementare la biodiversità agricola, rinunciando alle monocolture e favorendo pratiche meno impattanti come l’agricoltura rigenerativa e quella biointensiva; ma soprattutto: è necessario mettere al riparo il mercato agroalimentare dalla speculazione finanziaria.
Nel rapporto pubblicato da IPES Food lo scorso maggio, e intitolato Another perfect storm? (in italiano: Un’altra tempesta perfetta?), il problema viene sviscerato in modo inconfutabile: “"La crisi ucraina ha sottolineato ancora una volta la necessità di profondi cambiamenti strutturali nei sistemi alimentari, scatenando quella che è a tutti gli effetti la terza crisi mondiale dei prezzi alimentari in 15 anni,", si legge nelle conclusioni "Se non riusciamo a riformare i sistemi alimentari in questo frangente – e a ripensare i più ampi sistemi socio-economici e politici in cui sono inseriti – si lascerà un numero crescente di persone alla mercé di aiuti umanitari troppo esigui e vulnerabili alla fame di massa".