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Perché il divieto di aborto in Polonia è una guerra contro tutte le donne

In Polonia è in discussione una legge che introdurrà il divieto totale alle interruzioni di gravidanza a spese di tantissime donne: una crisi umanitaria oltre che politica.
A cura di Jennifer Guerra
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L'attivista polacca Marta Lempart protesta contro la proposta del divieto d'aborto in Polonia (Photo by Omar Marques/Getty Images)
L'attivista polacca Marta Lempart protesta contro la proposta del divieto d'aborto in Polonia (Photo by Omar Marques/Getty Images)

Le strade di Varsavia sono tinte di rosso. È così che le donne del movimento Strajk Kobiet hanno decido di protestare: versando secchi di vernice su se stesse e sui marciapiedi della città, a simboleggiare il sangue di tutte quelle donne che potrebbero morire – e in alcuni casi sono già morte – per le leggi repressive che il governo ha approvato negli ultimi anni nei confronti delle donne e delle minoranze sessuali. Non è la prima volta che le polacche scendono in piazza per questo motivo: Strajk Kobiet è nato nel 2016, per protestare contro un progetto di legge che aveva l’obiettivo di impedire l’interruzione di gravidanza in ogni circostanza. Sono tornate a riempire le strade alla fine del 2020, con la più grande protesta della storia del Paese: quella legge è infatti diventata realtà, e non attraverso un iter parlamentare, ma grazie alla sentenza di una Corte costituzionale giudicata imparziale e collusa con il governo.

L’ultimo capitolo di questa storia è l’annuncio dell’introduzione di una nuova figura, un superprocuratore che dovrà vigilare sul comportamento dei polacchi – e in particolare delle donne – accedendo ai loro dati personali e sanitari. Il governo vuole infatti istituire un Istituto per la famiglia e la demografia, guidato dal cattolico fondamentalista Bart łomiej Wróblewski. “Potranno sorvegliare le donne per capire se vogliono abortire o prendere la pillola del giorno dopo, perseguitare le famiglie arcobaleno, strappare i figli alle persone LGBTQ+, impedire divorzi. Stanno chiudendo il cerchio”, ha commentato la co-fondatrice di Strajk Kobiet Marta Lempart, che per il suo attivismo ora rischia fino a 8 anni di carcere e che è stata costretta a lasciare casa sua per le continue minacce. Il ministro della Salute starebbe infatti compilando un database di tutte le gravidanze, con una prassi che ricorda il monitoraggio forzato del regime di Ceausescu. Il dittatore romeno nel 1965 vietò infatti l’aborto e per assicurarsi che il divieto fosse rispettato istituì uno stretto programma di sorveglianza che includeva anche visite ginecologiche obbligatorie, affinché nessuna gravidanza potesse passare inosservata e quindi essere interrotta.

Proteste in Polonia (ph by Omar Marques/Getty Images)
Proteste in Polonia (ph by Omar Marques/Getty Images)

La direzione in cui sta andando la Polonia sembra proprio questa: dopo aver inutilmente tentato di far passare una delle leggi più restrittive sull’aborto in Europa, il partito di governo PiS (Diritto e Giustizia) ha aspettato una pronuncia della Corte costituzionale che ha stabilito che l’aborto, a esclusione dei casi di stupro e del pericolo di vita della madre, non rispetta i valori della carta fondamentale polacca. Da anni l’imparzialità della Corte è messa in dubbio dall’opposizione polacca e dall’Unione europea, la cui Corte di Giustizia ha recentemente condannato la Polonia a pagare una multa di un milione di euro al giorno proprio per questo motivo. Diversi tra i giudici della Corte costituzionale polacca – tra cui il portavoce Aleksander Stepkowski – non solo solo vicini al PiS, ma fanno anche parte del gruppo fondamentalista religioso Ordo Iuris. Ordo Iuris si è fatto promotore di alcune delle peggiori leggi varate negli ultimi anni in Polonia dal punto di vista dei diritti civili, come quella che equipara l’educazione sessuale alla pedofilia, la creazione delle “zone libere da LGBTQ+” e la fuoriuscita della Convezione di Istanbul, la convenzione europea contro la violenza sulle donne, da sostituire con una nuova carta intitolata “Sì alla famiglia, no al gender”.

Queste leggi, oltre che importanti conseguenze sul piano simbolico e ideologico, stanno avendo esiti ancora più tragici nella vita di milioni di polacchi e polacche: oltre all’omofobia dilagante, gli aborti clandestini sono all’ordine del giorno e a novembre Izabela, una donna di 30 anni, è morta di sepsi nell’ospedale di Pszczyna dopo che i medici si sono rifiutati di praticarle un aborto terapeutico per paura delle conseguenze penali che avrebbero potuto dover affrontare. “Grazie alla legge sull’aborto, aspetteranno che io muoia”, ha scritto in un messaggio alla madre poche ore prima del decesso. Chi se lo può permettere, va ad abortire in Germania o addirittura nei Paesi Bassi, che per aiutare le donne polacche hanno passato una risoluzione che permette loro di abortire gratuitamente nel Paese, un’iniziativa che di solito si riserva in caso di crisi umanitarie. Si stima che più di 34mila donne abbiano compiuto questa scelta da quando la legge è in vigore.

Quella polacca è a tutti gli effetti una crisi non solo politica ma anche umanitaria, che si consuma ai danni delle fasce più vulnerabili della popolazione. Il 14 e il 15 dicembre, il Senato polacco discuterà una nuova legge sull’aborto che, se approvata, introdurrà il divieto totale alle interruzioni di gravidanza, compresi i casi di stupro, incesto e pericolo di vita della donna. Anche dietro questa legge c’è naturalmente la mano di Ordo Iuris, che secondo un’indagine del sito di giornalismo investigativo Oko Press riceverebbe anche ingenti finanziamenti statali. Se è vero che lo stato di una democrazia si misura soprattutto dal modo in cui tratta chi è ai suoi margini, di fronte a ciò che accade in Polonia vale la pena notare non solo la vergognosa repressione del governo, ma anche il modo in cui chi ne è vittima la sta combattendo: milioni di donne polacche stanno lottando con coraggio e con ogni mezzo. Non possiamo permettere che quel sangue di vernice che oggi macchia le strade di Varsavia si trasformi in sangue vero.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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