"Non stavo bene, perché una persona che sta bene non fa una roba del genere e io mi trovo in un incubo perché mi dispiace, questo è un fardello grosso da portarsi dietro, grosso, più del carcere. Ma se tornassi indietro non sarei sicuro che la cosa avrebbe lo stesso svolgimento, perché con la testa non ci stavo più". Con queste dichiarazioni spontanee Giovanni Padovani ha tentato un estremo tentativo di discolpa, prima della lettura della sentenza. Una sentenza che lo ha condannato alla pena dell’ergastolo per aver ucciso la sua ex compagna Alessandra Matteuzzi.
Anche con quelle parole, che forse avevano l’intento di mostrarsi sofferente ed empatico per le conseguenze delle sue azioni, Padovani ha confermato quelli che sono i tratti caratterizzanti la sua personalità. Un discorso intriso di deresponsabilizzazione, di totale assenza di empatia, nel quale, ancora una volta, l’uomo sostiene di aver commesso l’omicidio perché incapace di intendere e di volere, parlando di "un incubo" che appare più riferibile alla sua attuale condizione di detenzione che non alla sofferenza che ha causato.
Un'incapacità di intendere e volere, pienamente disconfermata dalla perizia psichiatrica a cui è stato sottoposto, che ha inoltre evidenziato nel suo comportamento una "generalizzata tendenza ad accentuare significativamente sintomi psicopatologici", con lo scopo, appunto, di simulare un vizio di mente.
Al contrario, la Corte D’Assise di Bologna, gli ha riconosciuto, tra le altre, anche le aggravanti della premeditazione e dello stalking, ricostruendo quello che è stato il percorso lucido e precostituito che ha portato alla morte di Alessandra. Un percorso caratterizzato da delitti spia, da fattori specifici, strettamente correlati con un elevato rischio di letalità per la donna.
La relazione tra Alessandra e Giovanni era stata infatti, sin da subito, caratterizzata dalla gelosia possessiva dell’uomo che era ossessionato dall’idea che la compagna potesse tradirlo, tanto da arrivare a pretendere che lei lo videochiamasse per vedere dove fosse e soprattutto con chi, e ad ingaggiare un investigatore privato per pedinarla.
Una gelosia possessiva, la sua, fortemente indicativa della sua volontà di possesso e di controllo esclusivo nei confronti di Alessandra. In questi casi non si parla di gelosia nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto di una confusione tra amore e possesso, dell’incapacità di rispettare il diritto di autodeterminazione dell’altra. "O mia o di nessuno".
Una gelosia ossessiva, un senso di possesso, che, come abbiamo visto anche in questo caso, persistono anche dopo la fine della relazione. Fine della relazione che spesso è correlata con un aumento del livello dei comportamenti violenti, un’escalation in termini di frequenza e intensità come conseguenza a quello stravolgimento per il venir meno di quella che viene percepita come una proprietà.
Le ricerche dimostrano che in Italia, quasi la metà dei femminicidi avviene proprio a ridosso dalla separazione di fatto tra i partner (in generale entro i primi 90 giorni), soprattutto quando si è in presenza di un autore particolarmente controllante e possessivo, come nel caso del Padovani. E che più del 70% delle donne che vengono uccise avevano presentato una denuncia per stalking nei confronti di quello che diventerà il loro assassino.
Ecco che in questo contesto, l’attività persecutoria posta in essere dall’uomo a fronte dei tentativi di Alessandra di interrompere la relazione, era fortemente indicativa della sua intenzione di continuare, ad ogni costo, a condizionarne la vita, di mantenere un rapporto con la donna, anche contro la sua volontà.
Padovani, infatti, aveva posto in essere tutta una serie di comportamenti volti a destabilizzare Alessandra, a controllarla, ad impedirle di riprendere in mano la sua vita. Le aveva staccato il contatore, introducendosi di nascosto all’interno del palazzo in cui la donna viveva, si era nascosto all’ultimo piano per farle un agguato, si era arrampicato al suo balcone per introdursi nel suo appartamento.
Le aveva sottratto le password dei socialnetwork, della telecamera di sorveglianza, e delle mail. La cercava in modo ossessivo, la seguiva, si appostava. Tanto che Alessandra era arrivata a presentare una denuncia per stalking, nei confronti di Giovanni, il 29 luglio 2022, tre settimane prima di essere uccisa. Una denuncia a seguito della quale non era stato emesso alcun provvedimento cautelare, che avrebbe potuto tutelare la donna che, solo qualche giorno prima, in una disperata richiesta di aiuto, aveva detto alla mamma di Giovanni "non voglio morire, ho paura".
Alessandra Matteuzzi, come la maggior parte delle donne vittime della violenza maschile, aveva percepito il rischio che stava correndo, aveva paura e aveva provato a chiedere aiuto, a tutelarsi come poteva, arrivando addirittura a segregarsi in casa a Ferragosto, fingendo di essere in vacanza in un’altra regione. Tutto nell’unico, vano, disperato, tentativo di sottrarsi alla violenza di Giovanni, di sopravvivere.