Perché il disastro della “nube rosa” di Seveso del 1976 ha cambiato le regole dell’Unione Europea
All’inizio la bambina aveva solo del rossore sulle guance. Ma poteva essere qualsiasi cosa, poi sono arrivate le prime cisti, grosse, su tutto il volto, sulle braccia, lungo tutte le gambe. E insieme alle cisti il prurito, il dolore, il pianto, la paura di guardarsi allo specchio, la vergogna, gli sguardi indiscreti, il sentirsi un’untrice o un’appestata. La bambina è piccola, avrà 6-7 anni e i genitori hanno paura che quello che loro figlia ha, qualsiasi cosa abbia, possa essere permanente o addirittura peggiorare. Però, in realtà, non è la sola. Ci sono altre decine di bambini come lei. Decine di bambini che da un giorno all’altro si sono svegliati ricoperti di cisti.
Gli esperti dicono che la colpa è di "qualcosa che sta nell’aria". Non si vede, ma c’è. E bisogna evacuare subito la città. Tutte le famiglie devono abbandonare le loro case, i loro averi. Devono abbattere o far abbattere i loro animali, i loro cani, i gatti, le galline, i conigli. E chi tra questi non viene abbattuto, è perché è già morto.
10 luglio 1976: un sabato d'estate nei comuni della Bassa Brianza
Il 10 luglio 1976 è un caldo sabato d’estate. È quasi mezzogiorno e mezza e nelle varie cittadine della Bassa Brianza ci si prepara per il pranzo. Alcuni apparecchiano la tavola fuori perché è una bellissima giornata. Le tavole delle famiglie sono spesso numerose perché, oltre ai figli, ci sono anche i parenti anziani che vivono con loro. Tra un piatto e l’altro messo a tavola le mamme cominciano a richiamare i figli che stanno giocando all’aria aperta. C’è chi si rincorre, chi, con quel caldo, preferisce stare sotto l’ombra di un albero a giocare. Ridono, urlano e rispondono ripetutamente alle mamme “Arriviamo!” senza arrivare mai.
L'industria chimica ICMESA al confine tra Meda e Seveso
Al confine tra due comuni della bassa Brianza, Meda e Seveso, c’è un’industria chimica, l’ICMESA. L’ICMESA è di proprietà di un’altra azienda svizzera, la Givaudan, che produce fragranze e profumi; ed è controllata da un’altra azienda, sempre svizzera, la Hoffmann-La Roche, che, invece, produce medicinali.
L’ICMESA produce diserbanti, fungicidi, battericidi, cioè tutte quelle sostanze utili per eliminare nei campi e nei giardini per eliminare le erbacce e i funghi parassiti delle piante.
Il reattore A101 dell'ICMESA va in avaria
Quel 10 luglio all’ora di pranzo, essendo un sabato, il ciclo produttivo dei reattori chimici, cioè quei grossi contenitori dove avvengono le reazioni chimiche, non è attivo, quindi tutto il composto che è al loro interno non viene lavorato, è stato messo in pausa fino a lunedì. Però, il sistema di controllo del reattore A101, quello che produce un composto, il triclorofenolo, va in avaria. Questo porta alla temperatura e alla pressione, all’interno del reattore, ad alzarsi tantissimo. In condizioni normali dentro quel reattore, per produrre il composto la temperatura dovrebbe stare sugli 80°, più o meno. Ma in quel momento sale fino a raggiungere i 500°. Il reattore diventa come una pentola a pressione. Ha bisogno di una valvola di sfogo per disperdere il contenuto che c’è al suo interno. Altrimenti l’alta temperatura e la pressione rischiano di far esplodere tutto il reattore, provocando un danno gravissimo.
A quel punto si apre la valvola di sicurezza – si chiama "disco di rottura", un dispositivo montato sui reattori per evitare che esplodano in casi come questi. La valvola si apre e un getto fortissimo d’aria fuoriesce dal reattore, come in uno sfiatatoio.
Un operaio, che quel sabato è in servizio, racconterà di aver sentito un sibilo provenire dalla zona del reattore 101 e di essere corso a controllare. Resosi conto della situazione, ha azionato subito il raffreddamento del reattore – abbassando così sia la temperatura che la pressione.
La nube rosa di diossina trasportata dal vento
Però è troppo tardi, perché nel frattempo il composto dentro il reattore è, in parte, fuoriuscito nell’aria. Quel reattore produce il triclorofenolo, però, portandolo al di sopra dei 156 gradi si trasforma in Tcdd – una varietà di diossina particolarmente tossica. L’Istituto Superiore di Sanità riporta che questo tipo di diossina, la Tcdd: “può causare tumori e danni gravi al sistema nervoso, a quello cardiocircolatorio, al fegato e ai reni. Inoltre riduce la fertilità e, nelle donne incinte, può provocare malformazioni al feto e aborti spontanei”. E, in quel momento, all’ora di pranzo di quel 10 luglio, una quantità che si stima sia tra i 15 e 18 kg si disperde nell’aria sotto forma di una grande nube rosa che il vento inizia a spostare.
L'ICMESA dà l'allarme nove giorni dopo
In tutto ciò l'ICMESA non dà l'allarme, non avverte né le autorità né i vari comuni lì intorno. Non solo: l’industria resta aperta e il lavoro va avanti come sempre. Il 14 luglio, quattro giorni dopo l'incidente, la Givaudan, l’azienda proprietaria, effettua delle analisi in Svizzera per accertarsi della dispersione di diossina. I risultati, che danno esito positivo, restano lì, in quei laboratori e nessuno in Italia viene informato fino al 19 luglio – nove giorni dopo l’incidente. In realtà ci sono alcuni sospetti, o almeno i primi pensieri che qualcosa non vada, già dal 15 luglio, dopo aver notato che al passaggio della nube tossica rosa alcune piante si seccavano. E i sindaci di Seveso e Meda, i due comuni tra cui sta l’ICMESA, annunciano il divieto di toccare ortaggi, animali e, in generale, la natura. Il 19 luglio, Givaudan, ammette ufficialmente la presenza di diossina nella nube tossica.
Uno dei più grandi problemi di questo disastro, oltre l’allarme dato nove giorni dopo, è il vento. Il vento fa spostare la nube verso sud, superando i confini di Meda e Seveso, il comune più colpito, toccando quelli di Cesano Maderno, Limbiate e Desio.
La divisione in tre zone delle aree contaminate
Tutta l’area colpita di questi cinque comuni viene divisa in tre zone: la zona A, che sarebbe la rossa, sta praticamente tutta nel Seveso e comprende una piccola parte a Meda. Poi c’è la zona B e la zona R, cioè la “zona di rispetto”. La zona A è quella che subisce le conseguenze più estreme perché è la più intossicata. L’ICMESA, che si trova lì, viene smantellata. Il primo strato di terreno profondo 80 cm, quello più a contatto con l’aria e quindi più contaminato, viene rimosso. Gran parte degli abitanti vengono evacuati, gli animali abbattuti e le case demolite. In totale, tra chi si ritrova la propria casa rasa al suolo e chi ha invece il divieto di entrarci, gli sfollati sono 736.
La paura dovuta dal non sapere
Nel 1976 internet ancora non c’è. Ad oggi si impiegano pochi secondi a cercare in rete “diossina” per capire cosa sia, gli effetti e i danni. Nel '76 si poteva solo ascoltare il sindaco, aspettare un comunicato, leggere i fogli affissi in strada, parlare tra vicini, amici di famiglia. Centinaia di persone si sono ritrovate davanti la porta di casa qualcuno che ha detto loro che non potevano più vivere là – o che la casa andava demolita. O che i loro animali andavano abbattuti. E il tutto senza davvero capirne il perché. Quasi tutto, intorno a loro era come al solito: non c’erano danni gravi evidenti intorno a loro, come può capitare, invece, dopo un evento come il terremoto o un’alluvione.
Le testimonianze degli sfollati del disastro di Seveso
In rete ci sono molti video che testimoniano quei momenti, gli umori delle persone, la confusione, la paura. Una donna porta un sacco alle autorità facendo la lista degli animali morti che ci sono dentro. Ha la voce sofferente e dice solo: “Un pollo, una faraona… e il gatto”. O, ancora, un giornalista fa delle domande alle persone che si trovano in fila per prendere i pullman per andarsene dai propri comuni. Lui dice “è arrivato il momento”, e una donna, sull’orlo del pianto, risponde: “Non mi faccia dire niente, per piacere”. O un’altra, sempre con le lacrime agli occhi: “sono due anni che abito in questa casetta, era la casa dei nostri sogni. Non mi faccia dire più niente”.
In un’altra testimonianza una donna fa al giornalista: “Ma lei che ci interroga a noi, lei ci crede alla diossina? Ci crede che ci sia? La metà di noi è convinto che poteva viverci”. Un signore racconta di essersi accorto che qualcosa non andava perché non veniva più svegliato alle quattro del mattino dal “concertino”, così lo chiama lui, di uccelli. Dice: “Ho avvertito qualcosa del nostro grande creato che scompariva e che da lì potevamo scomparire anche noi”.
Gli effetti della diossina su donne e bambini
Come le decine di bambini a cui la diossina provoca la cloracne, che comporta la comparsa di cisti sul corpo, principalmente su tutto il viso e gli arti. Dolore, infiammazione, prurito – e, appunto, il pregiudizio, il venir additati come untori. Questa cosa l’hanno subita soprattutto gli sfollati che, andandosene in altri comuni, sono stati subito individuati come "quelli di Seveso". La cloracne non ha ucciso nessuno dei bambini contaminati – ma molti di questi, ancora oggi, hanno il viso ricoperto dalle cicatrici.
E poi, le donne incinte. La paura che la diossina possa provocare malformazioni al feto o aborti spontanei è tanta, perché gli effetti delle contaminazioni sulle persone non sono ancora conosciuti. Però, nel ‘76 l’aborto è illegale – bisognerà aspettare altri due anni per il referendum.
Nel ‘76 possono essere fatte delle eccezioni ma, comunque, sono più relative al se la gravidanza mette a rischio la vita della madre piuttosto che se la gravidanza possa portare alla malformazione del feto. Nel caso del disastro di Seveso viene fatta un’eccezione e 42 donne decidono di interrompere la gravidanza. Nel ‘76 questi aborti sono a lungo argomento di dibattito per l’opinione pubblica e, anzi, si possono considerare come un una delle ragioni principali per cui il dibattito sull’aborto è cresciuto così tanto da portare alla sua liberalizzazione solo due anni dopo, nel ‘78.
L'aumento dell'incidenza dei tumori
Per quanto riguarda la mortalità e l’incidenza dei tumori vengono realizzati quattro studi che riscontrano un effettivo aumento di, ad esempio, neoplasie e linfomi – ma anche di, tra le altre, mortalità per malattie circolatorie. Nel 1980, dopo un processo giudiziario e una causa civile, si raggiunge un accordo: l’ICMESA deve pagare quasi 104 miliardi di lire per il disastro – cioè, più di 50 milioni di euro: perlopiù soldi destinati alla bonifica.
Tutto ciò che era nella zona A, quella più contaminata, è stato distrutto: quindi case, la stessa ICMESA, il reattore, il primo strato di terreno, i macchinari usati per la demolizione e gli scavi. Tutte le macerie sono state seppellite in delle vasche di contenimento a diversi metri da terra per evitare altre contaminazioni. E oggi, sopra le vasche, sorge un Parco naturale, il Bosco delle Querce, tuttora aperto a chiunque voglia andarci a fare una passeggiata, a correre o a stare a contatto con la natura.
Le direttive Seveso imposte dall'Unione Europea
L’incidente di Seveso ha avuto una grande rilevanza: pensate, ha cambiato l’Unione Europea. In tutto, nel corso degli anni, sono state emanate tre direttive, la Seveso I, II e III. In sostanza, l’obiettivo delle direttive è che un Paese non venga colto di sorpresa in disastri come quello di Seveso. E per elaborare piani di emergenza, ha bisogno di conoscere bene le informazioni sui suoi impianti industriali, i dati, le caratteristiche della popolazione e del territorio attorno. Ma anche, ovviamente, identificare quali siano le sostanze pericolose, individuare i rischi e così via. Il disastro di Seveso ha portato alla concezione di “rischio” e, di conseguenza, ha portato a predisporre degli strumenti per limitarlo il più possibile.
Le tre direttive Seveso sono state imposte agli Stati dell’Unione Europea, quindi il disastro ha portato, effettivamente, a dei cambiamenti che superano i confini dell’Italia, di modo che tutti gli errori commessi durante l’incidente di Seveso, come anche la mancanza di informazioni iniziali e il ritardo nel dare l’allarme, non possano venire più commessi. O, almeno, questo è l’obiettivo comune.
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