Succede sempre più spesso: quando ci troviamo in una situazione complessa, che non sappiamo come raccontare, nel dubbio ci aggrappiamo alla metafora della guerra. L’abbiamo visto nei frangenti più drammatici dell’emergenza Covid, quando le corsie erano diventate trincee e i medici nelle terapie intensive la prima linea del fronte. Ma anche nella quotidianità ricorriamo a questa metafora più abitualmente di quanto non si pensi, quando parliamo di “guerra al cancro”, ad esempio, di “guerra alla droga”, di “guerra all’evasione fiscale”. E naturalmente lo stiamo facendo anche con la crisi climatica.
Negli ultimi mesi mi è capitato di leggere articoli che paragonavano la lotta al cambiamento climatico alla “terza guerra mondiale”, altri che paventavano una “guerra tra visioni del mondo”, per non parlare di chi si ostina a sbagliare mira parlando di “una guerra in corso tra Uomo e Natura”. Qualche giorno fa, però, ho letto un articolo apparso qualche tempo fa su The New Republic, che ha acceso un diverso tipo di lampadina. Nel pezzo, intitolato “Il cambiamento climatico è il Vietnam delle nuove generazioni”, Matt Ford spiegava come l’attuale establishment stia trasformando la crisi climatica in una sorta di guerra intergenerazionale globale.
Chiariamoci: al momento non è in corso alcuna guerra intergenerazionale, e del resto sarebbe piuttosto miope imputare le 414 ppm di CO2 che stanno riscaldando questo pianeta a intere generazioni di individui, indistintamente, quando sappiamo bene che la responsabilità è di un sistema economico e produttivo incardinato sull’estrazione di risorse e l’accumulo di ricchezza. Ma se il riferimento alla guerra è inteso a individuare due ipotetici fronti, separati un divario sempre più pronunciato, allora non è così fuori fuoco. Perché di fatto un gap generazionale esiste.
Un’ingiustizia climatica intergenerazionale
Lo scorso 8 ottobre, la rivista Science ha pubblicato uno studio intitolato “Diseguaglianze intergenerazionali nell’esposizione agli estremi climatici”, da cui emerge chiaramente come se anche riuscissimo a ridurre le emissioni come prescrive l’Accordo di Parigi del 2015, le persone nate nel 2020 si ritroveranno comunque a subire un clima molto più estremo di quello che stiamo sperimentando noi.
I neonati di oggi, per dire, subiranno una media di 30 ondate di calore anomale nell’arco della loro vita, sette volte in più rispetto ai nati nel 1960. Non solo, andranno incontro al doppio delle siccità e degli incendi, e al triplo delle alluvioni e dei cattivi raccolti. Quote allarmanti, che però potrebbero ancora essere dimezzate stabilendo tagli più drastici e mantenendo il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5 gradi.
Questo significa che se l’imminente COP26 di Glasgow fallisce, se cioè non si trova un accordo sovranazionale per cambiare drasticamente rotta, le nuove generazioni vivranno in un mondo radicalmente diverso da quello in cui hanno vissuto le persone che oggi siedono nei parlamenti e negli uffici d’amministrazione delle 100 aziende oggi responsabili per il 70% delle emissioni.
Tra le altre cose, lo studio sottolinea come i cambiamenti climatici prodotti nel corso della Storia avranno “un effetto minimo, se non nullo” sull’esposizione degli over-55 ai fenomeni estremi. Le nuove generazioni dunque pagheranno per scelte compiute prima della loro nascita. Non solo, a pagare il prezzo maggiore sarà chi oggi nasce in condizioni di emarginazione e povertà, soprattutto nelle nazioni del Sud del mondo, ossia quelle meno responsabili della crisi climatica in cui ci troviamo.
Un modo diverso di vivere la crisi climatica
Non stupisce allora che le generazioni più giovani stiano vivendo questa crisi in modo diverso.
Una serie di studi pubblicati negli ultimi due anni rivela come nei giovani di età compresa tra i 16 e i 25 una percentuale sempre più alta soffra di “ansia climatica”, un termine ombrello che alcuni psicologi e psichiatri hanno cominciato a utilizzare per raggruppare le ricadute psicologiche di un’emergenza ecologica sempre più evidente. Parliamo di un incremento dei casi di depressione e ansia che viene esplicitamente attribuito alla consapevolezza di una minaccia esistenziale per la quale non si stanno prendendo i provvedimenti necessari.
Il fatto che questi disturbi emergano soprattutto tra i giovani è legato a una loro maggiore consapevolezza del problema, e del resto ogni anno escono nuove ricerche e sondaggi che certificano come le nuove generazioni siano maggiormente al corrente del problema rispetto a quelle precedenti.
Ma non si tratta solo di questo. Se andiamo a vedere i dati più recenti, infatti, noteremo che la consapevolezza della crisi climatica sta aumentando in tutte le fasce d’età. La differenza, semmai, sta nel tipo di reazione che questa consapevolezza produce.
Le buone intenzioni, la disillusione
Lo scorso settembre, l’autore e sociologo Bobby Duffy ha firmato un articolo sul New Scientist in cui rivelava i risultati di un sondaggio che ha condotto insieme a una squadra del King’s College di Londra. Questo sondaggio interpellava 4000 tra cittadini britannici e statunitensi dai 18 anni in su, chiedendo loro quanto ritenessero urgente il problema climatico e quanto fossero disposti a cambiare il proprio stile di vita per “risolverlo”. L’obiettivo di Duffy era dimostrare come il gap generazionale climatico fosse in realtà un mito: “Le vecchie generazioni sono meno fataliste delle nuove” scrive Duffy nel pezzo “I giovani tendenzialmente sono i più restii a cambiare stile di vita per affrontare il cambiamento climatico”.
Sarebbe un dato sbalorditivo, se solo fosse vero. Dai risultati raccolti da Duffy e colleghi, infatti, emerge una realtà ben diversa. Gli intervistati sono stati chiamati ad esprimersi su quanto siano disposti a cambiare stile di vita per affrontare la crisi climatica e su quali iniziative di boicottaggio abbiano adottato, due domande che si concentrano su un solo aspetto della lotta al cambiamento climatico: i consumi.
Basta fare un giro nel variegato mondo dell’attivismo climatico per rendersi conto che le giovani generazioni non sono affatto più fataliste di quelle precedenti, semplicemente non credono più alla favola, molto in voga negli anni ’80 e ’90, secondo cui questo pianeta potrà essere salvato attraverso scelte individuali di consumo.
“Le singole azioni di consumo vanno bene, ci mancherebbe” mi dice al telefono Giovanni Mori, portavoce di Fridays For Future Italia, che ho interpellato sulla questione “Ma non sono nemmeno lontanamente sufficienti. La tendenza a concentrarsi sulle azioni individuali riflette un approccio molto diffuso nei decenni passati, che si concentrava sulla dimensione locale. Ma si tratta di un problema globale, che può e deve essere affrontato dall’alto, a livello strutturale e di sistema.”
Probabilmente, se le domande del sondaggio di Duffy hanno ottenuto risposte negative da buona parte degli interpellati più giovani, è perché presupponevano un atto di accusa sui comportamenti del singolo più che su un intero sistema. Più che fatalismo, la loro era disillusione nei confronti di un certo modello di attivismo.
Un gap culturale
Chi oggi rientra nella fascia d’età che ha mostrato maggiore entusiasmo di fronte alla possibilità di cambiare stile di vita per combattere la crisi climatica (56-76), è cresciuto in un periodo storico in cui la comunicazione ambientale era assai diversa da quella odierna e, soprattutto, molto più contaminata dalle narrazioni dell’industria petrolifera. Si parlava di effetto serra, di inquinamento, di riciclaggio, e soprattutto di “impronta ecologica”. Ma è sufficiente ricordare come la locuzione “impronta ecologica” di stata coniata dalla British Petroleum, per comprendere quanto la retorica delle azioni individuali rischi di essere fuorviante (a chi volesse approfondire questo aspetto consiglio il saggio I bugiardi del clima di Stella Levantesi).
Non è un caso se l’attivismo climatico odierno, in tutte le sue diverse declinazioni, spinga in tutt’altra direzione. L’obiettivo non è reclutare consumatori virtuosi, bensì cittadini informati, organizzati e ragionevolmente incazzati. Cittadini che si mobilitano nelle piazze e nelle strade, realizzano iniziative di informazione e disobbedienza civile, conducono campagne di disinvestimento e di pressione politica. Azioni che hanno avuto più successo di quanto venga tendenzialmente accreditato.
Ma la strada da fare è ancora lunga. Stando alle Nazioni Unite, nonostante tutte le promesse e gli squilli di tromba, ci si attende un aumento ulteriore delle emissioni del 16% di qui al 2030. Le possibilità di mantenere il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5° sono quasi nulle, a meno che la prossima settimana a Glasgow succeda qualcosa di davvero inedito. Fino ad oggi le COP, le conferenze annuali dove gli stati si riuniscono per affrontare il problema a livello sovranazionale, si sono rivelate fallimentari, ma è anche vero che mai prima di ora una delegazione così nutrita di giovani era stata invitata al tavolo delle discussioni.
Tavolo a cui, è il caso di ricordarlo, siederanno politici e addetti ai lavori la cui età media sfiora i 50 anni. Tutte persone chiamate a decidere le sorti di un mondo che gli sopravvivrà. Se falliranno anche questa volta finiranno per addossare il costo della crisi climatica alle prossime generazioni, consegnando loro un mondo più caldo, più instabile, e più iniquo su molteplici fronti. Il che non sarebbe poi così distante da una dichiarazione di guerra.