Perché i verdi sono in crisi un po’ in tutta Europa, dopo una stagione di successi
Gli inglesi lo chiamano «green backlash», contraccolpo verde. È la sensazione che, dopo anni di inedito dibattito su crisi climatica e transizione ecologica, il vento stia cambiando. Un recente sondaggio di Eurobarometro mostra come altri temi – inflazione e immigrazione ad esempio – preoccupino i cittadini del Continente più dell’aumento delle temperature. Le proteste dei trattori, che tra le altre cose hanno ottenuto il ritiro di alcune leggi europee rivolte a ridurre l’uso di pesticidi, sono il sintomo più evidente di come alcune proposte ecologiche trovino un’opposizione non irrilevante. A questo fenomeno guardano con piacere le destre, che si preparano a centrare la campagna elettorale per le europee proprio sull’opposizione alle «follie green». Ma terrorizza un’altra famiglia politica europea: i verdi.
Dal boom alla crisi
Il Partito Verde Europeo è l’organizzazione che raggruppa i partiti verdi di tutto il Continente. In Italia è rappresentato da una piccola formazione, Europa Verde, che da alcuni anni si presenta alle urne col cartello Alleanza Verdi Sinistra (AVS), costruito assieme a Sinistra Italiana. Altrove in Europa i verdi corrono da soli e, sopratutto nei paesi nord, ottengono risultati nettamente più significativi. Alle ultime elezioni europee proprio i partiti appartenenti a questa famiglia erano sembrati l’astro nascente della politica comunitaria. Il Covid doveva ancora fare la sua comparsa, mentre l’invasione russa dell’Ucraina e le bombe su Gaza erano lontane. Nel 2019 l’evento politico dell’anno era stato la nascita di Fridays For Future, il movimento ecologista fondato dall’attivista svedese Greta Thunberg che per mesi riempì le piazze di mezzo mondo. Il successo dei cortei si riversò elettoralmente sui verdi in molti paesi. In Germania i Grünen presero uno storico 20%, sfiorando il primo posto e superando per la prima volta i socialisti. In Francia Europe Écologie, fino ad allora marginale, si piazzò terza col 13%. Nell’insieme, i verdi all’Europarlamento divennero il quarto gruppo, passando da 50 a 74 seggi.
A distanza di cinque anni, le cose sono cambiate. «In Italia Avs è stimata tra il 3 e il 4%, sostanzialmente in linea con le elezioni politiche. Ovviamente superare il 4% sarebbe fondamentale, essendo quella la soglia minima per eleggere rappresentanti», spiega Lorenzo Pregliasco, direttore di Youtrend. «La media europea è più alta, attorno all’8%. Pesa il dato francese e sopratutto quello tedesco, di certo la più grande delegazione ecologista nel prossimo Parlamento. In generale, però, è tutto il gruppo verde ad essere proiettato verso un calo. Rispetto al 2019 rischiano di perdere una ventina di seggi». La supermedia di Politico, una delle più rispettate testate di Bruxelles, assegna al gruppo Greens/Efa (che assieme ai verdi raccoglie anche alcuni piccoli partiti autonomisti e libertari) 45 seggi. Se i sondaggi fossero confermati, gli ecologisti diventerebbero il settimo gruppo nell’assemblea. La Germania in questo scenario rimarrebbe il feudo principale dell’ecologismo, ma i Verdi – al governo – crollerebbero al 12%. Non va meglio alla Francia, dove Europe Écologie, all’opposizione del presidente Macron, si fermerebbe all’8%.
Cosa è successo?
Foresta di Lützerath, Renania-Settentrionale, Germania, Una foto immortala un manifesto affisso su un albero. Sul foglio di carta è stampato un girasole stilizzato, il logo dei verdi. Al posto dei petali, però, stanno le pale di un’escavatore per il carbone. È il simbolo della difficoltà dei verdi tedeschi (Die Grünen), al governo, di far convivere le volontà della propria base con i compromessi della coalizione a cui appartengono. A Lützerath l’esecutivo di Berlino, che oltre ai verdi comprende socialisti e liberali, ha dato ordine di abbattere un pezzo di foresta per fare spazio ad una cava di lignite, il più inquinante dei combustibili fossili. La ragione di questa marcia indietro nella politica di abbandono del carbone è da cercare tra crisi energetica seguita all’invasione russa dell’Ucraina, sanzioni e l’esplosione del gasdotto North-Stream 2. Ma non è andata giù al movimento ecologista e ad una parte dell’elettorato, specie quello giovanile.
«Difficile dare un giudizio unitario sulla crisi dei verdi. Anche se europee, le elezioni di giugno saranno inevitabilmente molto nazionali, e ogni Paese ha le sue particolarità». A parlare è Lorenzo Zamponi, sociologo e professore associato alla Normale di Firenze. «In Germania, dove governano, faticano a mantenere il consenso acquisito».
Un’altro grande tema che mette in difficoltà la famiglia verde è la politica estera. I partiti verdi nascono storicamente pacifisti, ma su Ucraina e Gaza le diverse formazioni vanno in ordine sparso. «In Germania i Grünen sono favoreli al sostegno militare all’Ucraina e molto timidi su Gaza. Questo aliena le simpatie di parte del loro elettorato storico», spiega Zamponi. I conflitti dividono in realtà anche i verdi al loro interno, tra paese e paese. In nord ed est Europa – e sopratutto in Germania – i greens sono più affini alle posizioni occidentali sull’invio di armi al governo ucraino e sul supporto a Israele. Nel sud, al contrario, sono più vicini a posizioni pacifiste.
Cristina Guarda è consigliera regionale in Veneto e capolista per Avs nella circoscrizione nord-est. «Certo, ci sono differenze» – ci dice – «al Congresso di Lione, quando tutti i partiti verdi d’Europa si sono incontrati in vista del voto, siamo stati in molti a dire ai tedeschi che sui diritti umani la nostra posizione deve essere uguale ovunque, compresa Gaza. Ne abbiamo discusso animatamente, ma senza mai litigare. E ora, infatti, il Partito Verde Europeo parla molto più di prima dei palestinesi da difendere dalla follia di Netanyahu».
Che la famiglia verde sia eterogenea, comunque, non è una novità. «In Italia, in modo un po’ atipico, i verdi sono dentro un’alleanza che è per metà rossa: Avs. Questa peculiarità li distingue ad esempio dai tedeschi, e probabilmente è un limite», sostiene Pregliasco. Rimane che in Italia il sole che ride non ha mai sfondato nelle urne.
Sia i verdi più moderati (e forti elettoralmente) del nord Europa sia i più radicali cugini del sud, sono sottoposti alla stessa offensiva: quella delle destre. «Il clima è ormai entrato nell’armamentario delle cultural wars, le guerre culturali della destra. È lo stesso fenomeno che ha riguardato nel tempo i vaccini, l’aborto o il femminismo: si costruisce un’opposizione minoritaria ma rilevante e capace di spostare voti» spiega Zamponi. «Prima si parlava poco di clima e quindi, paradossalmente, vedevamo anche poco negazionismo. Ora certe posizioni sono sdoganate. Lo vediamo anche in Italia, nella programmazione dei talk di Rete4 o in programmi come La Zanzara. Il mito che la destra è riuscita a costruire è quella di un’élites che, con la scusa del clima, vuole portarti via le tue cose: la casa, la macchina, il terreno». Anche per Guarda il principale avversario è la destra estrema. «L’ondata nera populista è il nemico da sempre. Il mondo delle destre è molto bravo nel parlare alla pancia. Penso all’agricoltura: si è dato la colpa della crisi del settore a misure ecologiche che nemmeno sono ancora entrare in vigore. E, viceversa, si sono nascoste le storture della Pac [la politica europea per l’agroalimentare NdR], che hanno poco a che fare con il green e molto con la distribuzione dei fondi».
I sondaggi che saggiano la disponibilità degli europei verso le politiche ecologiche danno risultati contrapposti. Il negazionismo rimane un fenomeno marginale nel Continente, e secondo tutte le rilevazioni la grande maggioranza degli elettori vede con favore la crescita delle energie rinnovabili. Ma questo non si traduce necessariamente in consenso verso i partiti verdi, né verso la transizione quando applicata. «Leggiamo di un’elevatissima disponibilità rispetto alle politiche della transizione ecologica. Ma un conto è la disponibilità sulla carta, un conto è sostenerne i costi. Non sempre chi si dice a favore di policy verdi è disponibile a pagarle. Lo abbiamo visto, ad esempio, sulla questione della cosiddetta direttiva case green».
Prospettive, prima del voto
Per gli Eurogreens invertire la rotta prima del voto non è una missione semplice. Il contesto è quello di un clima bellico che sembra aver messo da parte i temi ecologici e di un atteso boom delle forze cosiddette sovraniste. I socialisti sono in difficoltà e la sinistra radicale del Gue/Ngl – che comprende alcune formazioni verdi scandinave fuoriuscite dagli Eurogreens – subirà anch’essa una diminuzione dei seggi. Alcune freccie, però, rimangono all’arco dei partiti ecologisti.
Innanzitutto dopo le elezioni due formazioni importanti potrebbero entrare a far parte della famiglia verde: la spagnola Sumar e l’italiano Movimento 5 Stelle. La prima, data al 9% dai sondaggi, è una coalizione che comprende anche forze afferenti alla sinistra radicale. Ma la sua leader Yolanda Diaz ha dichiarato la volontà di avvicinarsi alla famiglia ecologista, ed è probabile che almeno alcuni dei suoi eletti siederanno nel gruppo dei verdi. Più complicato il caso italiano. Di trattative per l’ingresso del Movimento 5 Stelle nel Partito Verde si parla da anni. Il negoziato sarebbe ostacolato dalla contrarietà di alcuni partiti, ma la porta rimane aperta. Se entrambe le formazioni aderissero agli Eurogreens, il bilancio di queste europee sarebbe sicuramente migliore del previsto per i verdi. I nuovi ingressi, però, sarebbero di verdi atipici, che basano il loro consenso più su temi sociali e pacifisti che sull’ecologia. «Il Movimento 5 Stelle da sempre occupa in parte uno spazio politico che altrove è dei verdi» conclude Pregliasco.
C’è poi la campagna elettorale. «Se le persone identificano la transizione con la finanza è un problema. Sicuramente più si sapranno proporre policy ecologiche in chiave espansiva, pubblica, più sarà facile trovare consenso» è il consiglio di Zamponi. «Questo è un nostro grande limite» spiega Guarda. «Le idee ecologiche sono associate ancora alla rinuncia. Sono agricoltrice, lo vedo nel mio settore. La gente pensa che più transizione significhi meno ettari, meno prodotto. Dobbiamo proporre strade che diano il giusto vantaggio economico a chi fa scelte verdi. Noi parliamo di retribuzione dei servizi ecosistemici. Il contadino non fa solo verdura: mantiene le falde pulite, salva biodiversità. Questo lo Stato dovrebbe pagarlo. È la via da seguire in tutti i settori: la transizione come metodo per creare lavoro e redistribuire benessere».