Ci sono immagini che oggi ci appaiono sconcertanti – volendo, persino affascinanti nella loro eccezionalità-, ma che presto potrebbero diventare talmente ordinarie da non meritare nemmeno una fotonotizia in prima pagina. Una di queste è la cappa arancione alla Blade Runner 2046 che è calata su New York la scorsa settimana a causa dei devastanti incendi nelle foreste canadesi. Immagini simili sono più comuni sulla costa pacifica degli Stati Uniti, e già abbiamo foto di Los Angeles e San Francisco immerse nello stesso arancione post-apocalittico che ha ridipinto la Grande Mela. Presto altre città si aggiungeranno a questo album tematico, e questo perché la frequenza e l’intensità degli incendi boschivi stanno aumentando sensibilmente in tutto il pianeta, e continueranno ad aumentare negli anni a venire per via della crisi climatica.
Ma la situazione è ancor più complicata di così: il punto non è soltanto che gli incendi siano destinati ad aumentare, anche il nostro rapporto con il fuoco sta cambiando, al punto che ci sono persone – lo storico del fuoco Stephen J. Pyne in primis – che non esitano a definire il periodo in cui stiamo addentrando con il nome di “pirocene”.
Il ruolo complesso della crisi climatica
Tra l’inizio di maggio e la metà di giugno le fiamme hanno avvolto le foreste di buona parte del Canada, dalla British Columbia al Quebec, polverizzando ogni record. Mai era successo che la stagione degli incendi si innescasse tanto presto e con tale intensità da spingere il fumo fino a New York, Philadelphia e Minneapolis. La situazione degli incendi estivi in Canada è problematica da tempo, ma negli ultimi anni è peggiorata sempre di più.
La crisi climatica ha un peso significativo in tutto ciò, ma il nesso è meno diretto di quanto si potrebbe pensare. Il fatto che questi incendi siano associati alle temperature record che si sono registrate in questo periodo in Alberta, in Nova Scotia e in Quebec non significa che queste abbiano innescato direttamente la combustione, il problema ha piuttosto a che fare con l’effetto che un’aria più calda ha sulla vulnerabilità della vegetazione a inneschi esterni (siano essi naturali, accidentali o dolosi).
Uno studio pubblicato nel 2021 dalla UCLA ha rivelato che l’aumento vertiginoso degli incendi boschivi sia in buona parte attribuibile al cosiddetto vapor pressure deficit (VPD), ossia la differenza tra la quantità di umidità presente nell’aria e la quantità di umidità che l’aria può trattenere al punto di saturazione. L’aumento delle temperature porta a una maggiore evaporazione dal terreno e dalle piante, creando, insieme agli eventi siccitosi, le condizioni perfette perché un incendio possa innescarsi e dilagare. A quanto pare, se le attività umane non avessero prodotto 1,2 gradi di aumento delle temperature globali rispetto al periodo preindustriale, il Canada avrebbe registrato una quantità di incendi di almeno 7 volte inferiore.
A questo si aggiungono una serie di altri fattori, alcuni in apparenza del tutto scollegati, come ad esempio il ruolo che alcune infestazioni di insetti possono avere sulla vulnerabilità degli ambienti boschivi agli incendi. Nello specifico, le stagioni insolitamente calde in Canada e Stati Uniti hanno indotto una proliferazione dello scarabeo della corteccia, che ha portato a una vera e propria devastazione degli ambienti forestali, lasciando tonnellate di vegetazione morta e secca come carburante per gli incendi.
Un doppio inquinamento
Oggi l’inquinamento urbano è un problema che causa ogni anno quasi 2 milioni di morti in tutto il globo. Di recente l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) ha rivelato che il particolato urbano è responsabile di circa 1200 morti premature tra gli under-18 europei, la fascia più vulnerabile da questo punto di vista. L’aumento degli incendi, e del fumo risultante, rischia di esacerbare ulteriormente il problema, dal momento che i componenti chimici presenti nel fumo prodotto dagli incendi tende a reagire con l’inquinamento urbano aumentando ulteriormente la tossicità dell’aria.
I composti organici volatili (VOC) emessi dagli incendi, combinati con gli ossidi d’azoto presenti nell’inquinamento urbano, possono reagire con la luce solare per produrre elevati livelli di ozono nell’aria cittadina. L’esposizione prolungata a questi livelli di ozono può comportare problemi respiratori e incidere sull’insorgenza di asma, tosse e mal di gola. E siccome i VOC possono viaggiare anche per centinaia di km, il raggio d’estensione di questa tossicità contribuisce ad aggravare la situazione.
L’ultimo rapporto di Legambiente sugli incendi ha rivelato come anche nel nostro Paese, come del resto in tutto il Mediterraneo, stiano aumentando anno dopo anno. Basti a pensare al picco registrato nel 2021, anno in cui si è registrato un aumento del 154,8% di ettari di territorio devastati dalle fiamme.
Edifici a prova di fumo
Mentre New York ancora era immersa in una surreale nebbia arancione, al Kimmel Center si svolgevano i lavori della Urban Green Building conference, un incontro in cui gli addetti ai lavori del settore edilizio e urbanistico si sarebbero dovuti confrontare su come costruire gli edifici (e le città) in maniera più sostenibile e adatta allo scenario climatico che si sta sviluppando. Considerata la situazione, buona parte delle discussioni ha finito per convergere su un problema che d’un tratto pareva irrimandabile: come assicurarci che gli edifici in cui la gente vive, lavora e trascorre gran parte della loro esistenza siano dei rifugi non solo a prova di incendio, ma anche a prova di inquinamento.
Molti degli edifici oggi presenti nelle nostre città non sono stati pensati per un mondo inquinato: al netto di tutti i discorsi che andrebbero fatti sulle opportunità di progettazione urbana che potrebbero permettere una maggiore ventilazione dei quartieri, si fa sempre più pressante la necessità di predisporre sistemi di ventilazione con adeguati filtri che consentano di minimizzare la quantità di microparticelle provenienti dall’esterno, soprattutto nei giorni in cui la qualità dell’aria è peggiore e soprattutto negli edifici ad alta frequentazione pubblica. Un’altra via da percorrere è lavorare sulla capacità degli edifici di tenere fuori gli agenti inquinanti, il che presuppone una riduzione della differenza di pressione dell’aria tra ambienti interni ed esterni: la minore pressione interna in molti edifici, infatti, unita a una sigillatura non ideale degli ambienti, fa sì che gli inquinanti entrino più facilmente nelle stanze abitate a prescindere dai sistemi di filtrazione e ventilazione. Nelle zone più interessate dagli incendi c’è chi sta già pressurizzando gli ambienti per minimizzare i rischi.
Convivere con il fuoco
Come spesso accade, le criticità legate alla crisi climatica sono spesso multiformi, interconnesse e dunque non offrono la possibilità di macrosoluzioni che raddrizzino il problema in poche mosse. I dati che abbiamo a disposizione, e le prove che abbiamo sotto gli occhi ogni estate, tratteggiano un futuro in cui dovremo fare di tutto per ridurre gli incendi boschivi, certo, ma anche fare di tutto per conviverci. Questo significa che sarà di vitale importanza procedere con una rapida decarbonizzazione dell’economia globale (per arginare le ricadute della crisi climatica); predisporre strisce tagliafuoco e intervenire a sfoltire le concentrazioni di vegetazione vulnerabile; sfruttare le acque reflue urbane riciclate per creare presidi di protezione e intervento; implementare una ricostruzione ragionata dei territori, che interconnetta la gestione delle foreste con quella dei campi agricoli, sfruttando i pascoli – ad esempio – come zone tampone per prevenire il diffondersi degli incendi; e naturalmente, introdurre sistemi di monitoraggio predittivo che ci consentano di limitare i rischi.
Quello che invece dobbiamo evitare, è di ragionare come se il fuoco fosse un nemico da domare e sconfiggere. Come ha ben spiegato Stephen J. Pyne nel suo Pirocene (Codice Edizioni 2022), il problema non riguarda solo il “fuoco cattivo” dei megaincendi e dei macchinari a combustione interna, ma anche la scomparsa del cosiddetto “fuoco buono” che ha aiutato a plasmare l’ecosistema in cui viviamo, e che oggi è stato in gran parte soppiantato. “Più cerchiamo di rimuovere il fuoco dai luoghi che sono co-evoluti con esso,” scrive Pyne “più si ripresenterà con maggiore violenza”.
Il punto è che in natura non esistono “nemici” e, come ogni altro elemento che ha accompagnato l’evoluzione animale e vegetale per milioni di anni, il fuoco ha avuto (e ha ancora) un ruolo importante per molte specie. Pensiamo agli ambienti forestali, dove contribuisce a liberare il terreno da accumuli di piante morte o in decomposizione che impediscono ad altri organismi e animali di raggiungere i nutrienti di cui hanno bisogno. Inoltre, il fuoco può velocizzare il processo con cui i nutrienti degli esemplari morti ritornano al terreno. Bandire il fuoco dai nostri territori, di fatto, contribuisce a renderli meno vitali e, per quanto paradossale possa suonare, li rende più vulnerabili a incendi più estesi e incontrollabili.
La lezione che possiamo apprendere da tutto ciò, ancora una volta, è che il controllo che possiamo esercitare sull’ambiente in cui viviamo è molto meno indirizzabile di quanto ci piaccia pensare, e gli effetti negativi della nostra illusione di controllo superano di gran lunga quelli positivi. La sfida di questo millennio sarà operare un cambio di paradigma tra un’illusione di controllo e una consapevolezza conservativa, che potremo ottenere solo continuando a studiare l’incredibile complessità degli ambienti che garantiscono la nostra esistenza su questo pianeta.