Perché era lecito che il vigile di Sanremo Alberto Muraglia andasse a timbrare in mutande
“Una foto in mutande non vuol dire nulla se poi uno entra all'orario giusto e fa onorato servizio”. È uno dei commenti arrivati da Alberto Muraglia, il vigile di Sanremo suo malgrado diventato famoso per quel video che lo ritraeva in slip e che lo ha fatto diventare il simbolo nella maxi indagine sui cosiddetti “furbetti del cartellino” della procura di Imperia, ora che quello che per lui è stato un incubo sembra finalmente finito.
“Sapevo che sarebbe finita così, ma c'è voluto troppo tempo”, dice ancora l'ex vigile che, dopo essere stato assolto sul piano penale, dovrà essere reintegrato. Il Comune dovrà risarcirlo per gli stipendi arretrati, una cifra che il suo avvocato, Luigi Alberto Zoboli, stima in oltre 250 mila euro.
“Ho sempre avuto fiducia nella giustizia, sapevo che prima o poi saremmo arrivati a questo giorno, però ci sono voluti troppi anni”, le parole di Muraglia. Nel contratto non c’è scritto che dovesse timbrare già in divisa, dice la sentenza. Lui quel giorno in cui è stato pizzicato dalle telecamere poste dalla Guardia di Finanza era in mutande davanti alla macchina timbratrice del Comune di Sanremo. “Mi sono recato a timbrare in mutante per far prima e scendere in servizio, la timbratrice era a qualche metro dal mio ufficio, e quella era anche la mia abitazione”, spiega Muraglia.
L'inchiesta della Guardia di Finanza nel Comune di Sanremo portò il 22 ottobre 2015 a 43 misure cautelari di cui 34 arresti domiciliari. Tra gli indagati, patteggiarono i dipendenti sorpresi in flagranza di reato, da chi andava a fare la spesa a chi un giretto in canoa.
Il vigile Muraglia – licenziato nel 2016 – ha affrontato serenamente il processo consapevole di non aver fatto nulla di penalmente rilevante. Proprio perché timbrare il cartellino in mutande non configura la fattispecie di alcun reato possibile. "Mi è capitato di smontare dal servizio, di arrivare a casa e ricordarmi di non aver timbrato. Per evitare di rivestirmi sono andato a strisciare il badge anche in pigiama", aveva detto il vigile al magistrato. E poi è stato assolto. I giudici spiegarono che non solo timbrava, ma iniziava a lavorare anche prima del suo turno.
“86 giorni agli arresti domiciliari, da innocente, e otto anni a difendermi nelle aule dei tribunali non li auguro neanche al peggiore dei miei nemici”, ha detto al Corriere. “È finito un incubo e, finalmente, tornerò a indossare la mia amata divisa perché è stato dimostrato che sono stato un vigile modello, altro che furbetto del cartellino”.
“Maledetto sia quel frame — così ancora al quotidiano — fui accusato di esser tornato a letto dopo aver timbrato. Io invece stavo entrando in servizio. Il mio alloggio distava 15 metri dall’ufficio e, alle 5 di domenica, andavo in borghese a controllare se c’erano auto da rimuovere per via del mercato. Se sì, chiamavo il carro-attrezzi e risalivo per indossare la divisa. Per non perdere tempo, quella volta ho timbrato in intimo. L’ho dimostrato esibendo i verbali e alcuni colleghi hanno testimoniato in mio favore”.