Mentre la campagna elettorale, come era lecito aspettarsi, prosegue gonfiando promesse e scoccando frecciate, sul fronte energetico la crisi continua a svilupparsi e ogni giorno si sente avvicinarsi l’ombra di un autunno e un inverno con la cinghia tirata. Si parla di abbassare di due gradi le temperature nelle abitazioni e negli uffici pubblici, si parla di ridurre di due ore al giorno l’utilizzo del riscaldamento, di far slittare di una settimana (o due) l’accensione dei termosifoni, di dare finalmente un taglio all’illuminazione notturna dei negozi e delle insegne. Misure ragionevoli, tutto sommato, e persino lodevoli, considerando gli sprechi energetici a cui siamo abituati, in estate come in inverno, ma che andrebbero a pesare principalmente sui singoli cittadini, i quali comunque rischieranno di pagare bollette esorbitanti di qui a qualche mese, il tutto mentre c’è chi grazie a questa crisi energetica sta registrando profitti mai visti.
Per evitare che l’inverno si trasformi in un incubo per i cittadini italiani è fondamentale che questi profitti straordinari vengano tassati e ripartiti. È una considerazione abbastanza ovvia, e a parole ben pochi si sono opposti a questa prospettiva; quando si è trattato di battere cassa, però, le cose sono cambiate. Questo per colpa di una norma scritta in fretta e male, certo, ma anche perché è stata presentata come un intervento straordinario, un contributo di solidarietà, quando il problema è in realtà strutturale.
Cosa sono gli extraprofitti energetici e perché è giusto tassarli
Con extraprofitto, tecnicamente, si intende un’eccedenza rispetto ai normali profitti, maturata da un’impresa non marginale, per ragioni contingenti non riconducibili a meriti dell’impresa stessa. Per usare parole più semplici e attinenti alla situazione in cui ci troviamo: parliamo degli enormi profitti che le aziende del settore energetico stanno maturando a fronte di un aumento del costo dell’energia legato allo scoppio della guerra in Ucraina. Secondo le stime, alcune aziende del comparto energetico (e in particolare di quello fossile), avrebbero maturato, tra il 2021 e il 2022, profitti in eccedenza per decine di miliardi; questo anche perché si sono ritrovate a poter vendere a prezzi gonfiati del combustibile fossile che avevano acquistato in precedenza, con contratti a lungo termine e prezzi assai più bassi. A questo si aggiungono le aziende che, in una situazione simile, si sono trovate nella posizione di speculare sui prezzi di beni (come il petrolio) che hanno subito un incremento di costo più marginale, rispetto al gas, ma che in alcuni casi sarebbero stati gonfiati per approfittare della crisi.
A fronte di questi rischi (parlo di “rischi” perché su queste presunte speculazioni non esistono ancora dati certi), una tassa ben calibrata sugli extraprofitti non sarebbe solo moralmente giusta, poiché andrebbe a ridistribuire l’eccedenza maturata agli stessi consumatori che l’hanno resa possibile, ma anche simbolicamente utile, dal momento che potrebbe aprire la strada, sulla carta, a uno strumento di controllo per arginare questo genere di speculazioni. Purtroppo, però, per come è stata concepita, questa tassa presenta una serie di problemi che, oltre a ostacolarne l’efficacia, rischiano di risultare controproducenti.
Cos’è andato storto
Lo scorso marzo, il governo Draghi ha approvato il “decreto Ucraina” 21/2022 che, tra le altre cose, prevedeva la riscossione di un tributo una tantum da quelle aziende energetiche, come A2A, Edison, Eni e Enel, che nel corso di quest’anno avessero registrato profitti in eccedenza del 10% (o di 5 milioni di euro) rispetto a quelli “normali” dell’anno precedente. Questo “prelievo solidaristico straordinario” avrebbe dovuto essere saldato in due tranche: la prima, del 40%, il 30 giugno 2022, e il restante 60% il 30 novembre 2022. Inizialmente si trattava di una tassa del 10%, a maggio però, con il decreto Aiuti bis, la quota è stata elevata al 25%. Stando alle previsioni del governo, gli extraprofitti energetici ammonterebbero a 40 miliardi di euro circa, ragion per cui si prevedeva un gettito di almeno 10 miliardi di euro, con il primo acconto ammontante a 4. Ma poi il 30 giugno è arrivato e nelle casse statali sono entrati appena 1,23 miliardi di euro. Come mai?
La motivazione è piuttosto semplice: molte aziende hanno deciso di non pagare confidando nel fatto che la tassa verrà considerata incostituzionale, e temendo che, come già avvenuto per la Robin Tax del 2008, una dichiarazione di incostituzionalità non si tradurrà in un rimborso effettivo. Di certo, l’impressione è che, per quanto idealmente giusta, la norma sia stata raffazzonata in fretta e furia, esponendo questa tassa a ogni genere di critiche formali. A partire dal fatto che la base imponibile (ossia l’extraprofitto) sia calcolata non a partire dal reddito o dall’utile di impresa, ma dal “differenziale IVA”, ossia la variazione di base imponibile sulla quale si paga l’IVA. Nello specifico, l’extraprofitto è stato calcolato facendo una sottrazione tra i valori relativi al periodo compreso tra l’ottobre 2020 e l’aprile 2021, e quelli relativi al periodo compreso tra ottobre 2021 e aprile 2022. Il che già di per sé comporta un problema di fondo, e cioè che il primo intervallo non sia stato affatto un periodo normale: si era ancora in piena emergenza Covid, la gente si spostava meno, i consumi energetici erano ridotti, e con essi i profitti delle aziende che oggi stanno facendo ricorso contro la misura prevista dal governo.
Ma il vero problema è un altro, ed è di tipo formale: il differenziale IVA, infatti, non è un indicatore sufficientemente specifico, su di esso influiscono infatti anche fattori, come le fusioni e le cessioni, l’incremento di attività o della quota di mercato o l’acquisto di un ramo d’azienda, che nulla hanno a che fare con un’attività speculativa; allo stesso tempo non contempla fattori rilevanti come svalutazioni, costo del lavoro e ammortamenti.
A fronte del mancato gettito prospettato dagli acconti versati a fine agosto, Mario Draghi ha dichiarato che il governo troverà altre maniere per costringere le aziende che hanno accumulato profitti immeritati a pagare il dovuto, ciò non toglie che i problemi formali esistano. Ancora una volta la gatta frettolosa ha partorito una norma aggirabile, e questo per via della solita, ottusa tendenza a privilegiare il breve termine a discapito del medio e del lungo. Se è vero, infatti, che i soldi degli extraprofitti servono ora, è anche vero che una misura simile rischia di rimandare soltanto il problema se non assume una dimensione strutturale.
L’ipotesi di una tassa permanente
A fine agosto, Ursula Von Der Leyen l’aveva detto chiaramente: una tassa sugli extraprofitti è necessaria non solo come misura straordinaria per gestire un periodo emergenziale, ma come strumento per mettere in chiaro, davanti ai colossi del settore energetico, che non verranno tollerate speculazioni di questa caratura. All’epoca si parlava, giustamente, di introdurre una tassa sui “profitti inattesi”, prospettando la possibilità che una simile misura diventasse permanente.
Lo scorso 4 settembre, il cancelliere tedesco Scholz ha annunciato che la Germania a sua volta intende mitigare l’impennata delle bollette prevista per l’inverno con una tassa sugli extraprofitti energetici. Nel frattempo, nella campagna elettorale italiana emerge da sinistra la proposta di introdurre una tassa agli extraprofitti ancor più ambiziosa, portando al 90%, se non al 100%, la quota da esigere sull’imponibile. Non sono proposte così peregrine, considerando che questi profitti inattesi sono frutto di speculazione su una situazione drammatica e già fonte di precarietà, ed è dunque giusto che vengano tassati pesantemente; ma potrebbero rivelarsi poco utili sul medio e lungo termine.
Il fatto è che la crisi Ucraina ha fatto emergere problematiche strutturali, che non possono, e non devono, essere affrontate unicamente con misure emergenziali. Anche perché molte delle nazioni che stanno valutando un prelievo una tantum sugli extraprofitti, allo stesso tempo stanziano ogni anno miliardi di euro in forma di sussidio a quelle stesse aziende fossili che oggi si trovano nella posizione di poter speculare sulla crisi energetica.
Chi tiene in vita il sistema fossile?
Secondo uno studio condotto dal Fondo Monetario Internazionale, il totale dei sussidi che le varie nazioni del mondo stanziano ogni anno in favore delle aziende fossili ammonterebbe, tra contributi espliciti e impliciti, a 5.600 miliardi di dollari; una cifra talmente esorbitante che basterebbe dirottarne il 10% per finanziare una transizione energetica rapida e trasversale. Solo in Italia i sussidi espliciti al comparto fossile ammontano a una cifra che, a seconda delle stime, va da un minimo di 13 miliardi (fonte: MiTE), a un massimo 41 miliardi di euro (fonte: Fmi). È opportuno sottolineare che si tratta di sussidi indirizzati sia ai produttori che ai consumatori di combustibili fossili, e che in parte servono a contenere un caro-prezzi che rischia di diventare insostenibile per la parte più povera della popolazione; resta il fatto che il governo italiano con una mano impone una tassa straordinaria alle aziende del comparto energetico, mentre con l’altra eroga fondi che le tengono in vita. Data la situazione, è di fondamentale importanza che l’Italia riduca i sussidi alle aziende del gas e del petrolio per devolverli alle rinnovabili. Tre mesi fa l’Ocse ha chiesto al nostro paese di presentare un piano che punti all’eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi e al raggiungimento di una maggiore sicurezza energetica. Ma su questo fronte, per ora, tutto tace.
Nel frattempo, c’è chi si scaglia contro la tassazione degli extraprofitti definendola “ingiusta, inutile e dannosa”. È la tesi avanzata, tra gli altri, da Dario Stevanato, Professore Ordinario di Diritto Tributario all’Università di Trieste, che in un pezzo pubblicato per l’Istituto Bruno Leoni scrive: “Questi prelievi riguardano soltanto le imprese operanti nel settore dell’energia, della produzione e commercio di gas, elettricità e prodotti petroliferi, lasciando indenni tutte le altre, che pure hanno o possono aver realizzato extraprofitti in tempi assai recenti (penso ad esempio ai risultati prodotti dalle imprese della GDO e dai supermercati durante il lock-down, che hanno tratto vantaggio dalle modifiche forzate alle abitudini di consumo dovute alla pandemia)".
Paragonando la grande distribuzione e i supermercati ai big del gas e del petrolio, però, si rischia di tralasciare il fatto che le prime forniscono servizi basilari e difficilmente sostituibili, mentre le seconde traggono profitti alimentando una crisi climatica che ogni anno provoca decine di migliaia di morti (e centinaia di miliardi di perdite). Gli extraprofitti del comparto fossile, se non proprio illeciti, sono sicuramente meno moralmente giustificabili degli extraprofitti maturati nella grande distribuzione o nel comparto farmaceutico. Le aziende fossili sono dinosauri in via d'estinzione, che continuano a camminare soltanto perché hanno saputo rendersi indispensabili impalcando (e tuttora finanziando) un sistema che dipende da esse. Ed è per questo esatto motivo che sono particolarmente inclini alle speculazioni: sanno che queste sono le ultime gocce da spremere prima che l'inevitabile passaggio alle rinnovabili renda impossibile ricavare profitti mastodontici dalla vendita di materiale combustibile.
Guardare sia al breve che al lungo termine
Alla luce di queste considerazioni, una tassa sugli extraprofitti del comparto fossile non è solamente giusta, è anche auspicabile come misura permanente. Certo, andrebbe riformata sotto diversi aspetti: innanzitutto, perdendo il carattere di provvedimento emergenziale, dovrebbe avere una destinazione d’uso precisa, che oltre alla ridistribuzione di un profitto immeritato contempli anche la traduzione in incentivi per la transizione energetica ed ecologica. Uno dei problemi dell’attuale tassa sugli extraprofitti, peraltro, è che in molti casi va a penalizzare gli stessi produttori di energia rinnovabile che a parole vengono invece definiti strategici per la sicurezza energetica del paese. Per questo è fondamentale, come si sta discutendo a livello UE, ragionare su un sistema di gestione dei prezzi che impedisca speculazioni come quelle che abbiamo visto in questi mesi, andando dunque a limitare preventivamente gli extraprofitti.
Intanto, il governo spera di ricavare parte dei versamenti dalle multe al 60% che sono scattate il 31 agosto sul mancato versamento della prima tranche sugli extraprofitti, e che scatteranno il 15 dicembre per la seconda tranche. La situazione è così drammatica, però, che c’è chi ipotizza di intervenire ulteriormente per correggere la norma, bonificandola da alcune criticità e aumentando al contempo l’aliquota dal 25% al 40%, o addirittura al 50%. Una decisione simile però rischierebbe di indebolire ulteriormente questa misura, e non tanto perché non sia giusto tassare al 50% gli extraprofitti energetici, ma perché equivarrebbe a dichiarare: signori, non sappiamo dove prendere i soldi e questo è il modo più semplice. E, aggiungerei, io: più innocuo, dato che non va a intaccare lo stesso sistema che ha reso quegli extraprofitti possibili.
Ancora una volta, come sempre quando si parla di crisi climatica e transizione ecologica, lo sforzo più difficile è orientare la propria bussola sia sul breve che sul medio e lungo termine, e dunque fare scelte che consentano di tamponare situazioni emergenziali e al contempo muoversi verso una decarbonizzazione trasversale e sistemica. Utilizzare una simile bussola non è facile, richiede più tempo, lavoro e dialettica politica, ma è uno sforzo ogni giorno più necessario.