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Cambiamenti climatici

Perché il reddito di cittadinanza è necessario per salvare il pianeta dal cambiamento climatico

Continuare sulla strada di un reddito di cittadinanza o di un sistema simile è un incentivo anche alla lotta alla crisi climatica.
A cura di Fabio Deotto
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A un mese alle elezioni politiche, nell’indecoroso carosello di delazioni e reciproche squalifiche a cui la maggior parte dei partiti si sta dedicando, capita che si parli anche di programmi, e buona parte di queste discussioni si articolano attorno al destino del reddito di cittadinanza. C’è chi propone di abolirlo e destinare quei fondi alle imprese come incentivo per nuove assunzioni, chi di depotenziarlo e ridurne l’estensione, chi di rafforzarlo e corredarlo di un salario minimo e una riduzione dell’orario lavorativo, chi invece propone di ricalibrarlo per renderlo più equo e sicuro.

A distanza di alcuni anni dalla sua prima introduzione, questa misura viene ancora da molti percepita come un’elargizione assistenzialista, o un “metadone di stato” per citare uno degli esponenti politici più critici, quando in realtà i dati parlano chiaro: lo scorso dicembre Anpal, l’Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro, ha rivelato come il 40% degli 1,8 milioni di beneficiari di reddito di cittadinanza abbia continuato a svolgere un lavoro (che da solo, ed è questo il vero problema, non consentirebbe di condurre una vita dignitosa), mentre il 30% ha attivato un nuovo rapporto lavorativo in seguito alla percezione del reddito di cittadinanza. Il problema, semmai, a livello occupazionale, riguarda il fatto che nel 65% dei casi i lavori proposti ai percettori di RdC non superino i tre mesi, e che nel 50% si tratti addirittura di contratti limitati a un solo mese.

Con tutti suoi limiti e difetti, dunque, il reddito di cittadinanza ha contribuito ad ammortizzare situazioni di povertà drammatiche che il Covid e la crisi energetica hanno reso ancor più emergenziale. Ma se poniamo la questione in ottica climatica (come andrebbe fatto con tutte le questioni, visto che la crisi climatica sta modificando ogni settore), allora risulta chiaro che il reddito di cittadinanza è una misura necessaria ma non sufficiente, e che presto bisognerà adottarne di più ambiziose e strutturali.

Il reddito di base non induce all’ozio né allo sperpero

Nel 2017, l’Ontario Liberal Party ideò e implementò un esperimento chiamato Ontario Basic Income Pilot Project: l’idea era di sorteggiare 4000 persone con reddito annuo inferiore ai 34.000 dollari canadesi, a cui sarebbe stato corrisposto un reddito di base annuale di circa 16.000 dollari. Non si trattava di un’elargizione vincolata, bensì di un vero e proprio reddito: che la persona in questione fosse o meno occupata, che cercasse o meno lavoro, che spendesse i soldi in maniera più o meno “edificante” non importava, quei soldi sarebbero stati percepiti in ogni caso. L’idea alla base di questo esperimento – e di gran parte degli esperimenti di reddito di base– è che ogni persona abbia diritto a una serie di beni e servizi gratuiti, e dunque debba ricevere una somma adeguata a soddisfare esigenze basilari come avere un tetto, nutrirsi, avere accesso alla rete e a mezzi di trasporto pubblico.

Contrariamente a quanto alcuni si aspettavano, l’esperimento diede risultati incoraggianti: grazie al reddito di base i partecipanti avevano potuto disporre di una rete di sicurezza contro la povertà, lo dimostra il fatto che questo denaro fosse stato utilizzato in massima parte per acquisti e servizi fondamentali: dalle spese per il trasporto pubblico all’acquisto di vestiti per la stagione invernale, al ripagamento di debiti universitari, fino alle spese alimentari. Non solo: il 32,5% dei partecipanti aveva sfruttato le eccedenze per riprendere a studiare, mentre il 25% ne ha approfittato per dedicare una porzione del proprio tempo a opere di volontariato.

Anche volendo adottare un’ottica cinicamente economica, insomma, il reddito di base non solo consentiva ai partecipanti di vivere in condizioni più sicure e dignitose, ma li portava anche a sviluppare competenze e abitudini che potevano essere di beneficio alla collettività.

L’esperimento avrebbe dovuto durare 3 anni, ma dopo soli 10 mesi il partito conservatore che subentrò alla guida della regione decise di chiudere i rubinetti, lasciando migliaia di persone sul lastrico. I dati ottenuti dal progetto pilota però parlano chiaro, e sono coerenti con quelli raccolti in esperimenti simili in altre parti del mondo: la disposizione di un reddito di base non vincolato nella maggior parte dei casi induce le persone a investire sulla propria istruzione, a uscire da spirali di dipendenza e autocommiserazione, ad adottare una pianificazione più oculata delle proprie finanze e a cercare lavori più soddisfacenti; e non è tutto: tra le altre ricadute positive si è registrata una netta riduzione delle morti infantili, dei tassi di criminalità e dell’abbandono scolastico, una riduzione dei costi sanitari pubblici e un aumento dei tassi di occupazione.

Lavoro, sostentamento, consumo: una catena da spezzare

D’accordo, ma cosa c’entra la crisi climatica? C’entra perché tra le varie ricadute di un reddito di base universale, e dunque assegnato a chiunque a prescindere dalla posizione anagrafica, sociale o lavorativa, c’è anche la concreta prospettiva di spezzare la robusta catena che collega il lavoro al sostentamento e al consumo.

Sappiamo che per arginare una crisi climatica che già oggi causa centinaia di migliaia di vittime all’anno è fondamentale ridurre drasticamente le emissioni globali di gas serra, e sappiamo che perché questa riduzione avvenga non sarà sufficiente una transizione energetica, bisognerà cambiare dalle fondamenta un paradigma economico incentrato sulla crescita e sui consumi. Tra i fautori del reddito di base universale c’è chi invoca la necessità di sopperire a una prospettata scomparsa del lavoro, dovuta nello specifico alla progressiva automatizzazione dei vari comparti e alla scomparsa di quei lavori che la transizione ecologica renderà obsoleti. In quest’ottica, un reddito di base sarebbe fondamentale per consentire a chi non trova lavoro di sopravvivere anche in un mondo sempre più automatizzato.

Ma questa visione non è del tutto a fuoco. Perché se è vero che metà della popolazione oggi è occupata in impieghi automatizzabili o addirittura inutili (David Graeber per questi ultimi stimava una quota del 30%, i più conservativi parlano del 5%), e sempre più lavori possono essere svolti da macchine o algoritmi, è altrettanto vero che la transizione ecologica creerà più lavoro di quanto ne eliminerà, e che l’attuale processo di automatizzazione potrebbe essere rallentato dalla necessità di adottare strategie di produzione meno impattanti a livello di emissioni.

Non è che lavoreremo di meno perché non ci sarà lavoro: lavoreremo di meno perché dovremo consumare meno, e dunque produrre meno. Alla luce di ciò, un reddito di base universale non sarebbe una misura emergenziale, una toppa per coprire uno strappo nel sistema, ma piuttosto un punto di partenza per costruire un sistema diverso, in cui il sostentamento non sia inevitabilmente connesso al lavoro, e in cui i servizi e i beni fondamentali a condurre una vita dignitosa siano effettivamente trattati come diritti, e non come elargizioni o compensazioni. Le centinaia di esperimenti condotti in vari punti del mondo hanno dimostrato che le persone che percepiscono un reddito di base svincolato non smettono di lavorare, anzi, continuano a lavorare e perseguire i propri obiettivi, tendono a investire di più sulla propria istruzione e sulle proprie competenze, semplicemente lo fanno da una posizione meno subalterna, che tra le altre cose consente loro di esigere condizioni lavorative più oneste.

Reddito universale di base o servizi universali di base?

Alcuni anni fa, l’Institute for Global Prosperity dello University College di Londra ha calcolato che un reddito di base di 292 sterline al mese esteso a tutta la popolazione britannica arriverebbe a costare 250 miliardi di sterline l’anno; se però, invece di elargire un reddito monetario, si provvedesse ad allargare la rete di sicurezza sociale, così che tutta la popolazione possa usufruire di beni e servizi fondamentali (alloggio, cibo, trasporto, internet gratuito), questa cifra scenderebbe a 43 miliardi l’anno.

Vista la necessità sociale e climatica di spodestare il lavoro come baricentro della vita degli individui, c’è chi propugna l’implementazione di un sistema di servizi di base universali, invece che di un reddito di base universale, scelta che potrebbe consentire di ridurre i costi e differenziare l’investimento pubblico (così che sia più difficile in futuro tagliarlo). C’è però chi sostiene che in questo caso si priverebbe l’individuo di decidere in autonomia come allocare le risorse di cui dispone, il che potrebbe rivelarsi controproducente a livello di responsabilizzazione personale e della percezione di sé all’interno della collettività.

Quest’ultimo punto, ossia il modo in cui un cittadino si percepisce all’interno della società, è meno marginale di quanto si potrebbe pensare. Se davvero vogliamo cambiare rotta e sviluppare un sistema che non sia più basato sulla crescita, sul profitto e sul consumo di risorse non rinnovabili, allora è fondamentale muoversi verso un’economia dove le persone non siano più solo produttori o consumatori, ma siano innanzitutto agenti partecipi di una ricchezza collettiva.

Rendere ogni cittadino partecipe della ricchezza collettiva

Nel giugno del 2020, in un’intervista con la testata argentina Telam, l’economista italiana Mariana Mazzucato ha tracciato una rotta interessante: “Sebbene l'idea alla base dell'Universal Basic Income sia buona -ha dichiarato – il rischio è che venga vista come un’elemosina, poiché perpetua false narrazioni secondo cui il settore privato è l'unico creatore, e non il co-creatore, di ricchezza nell'economia. […] Un'alternativa è il dividendo del cittadino o il fondo di ricchezza pubblica, una ricchezza di proprietà collettiva, con i benefici condivisi tra la popolazione. […] Permettendo ai cittadini di possedere una quota uguale della ricchezza che possiede un fondo, che crea un dividendo, dà loro una quota diretta del valore che un paese produce".

Non si tratta di un’idea nuova. In Alaska, per dire, dal 1982 esiste l’Alaska Permanent Fund, un fondo che garantisce un dividendo annuale per ogni cittadino e che in quarant’anni di attività ha fatto dell’Alaska uno degli stati americani con i tassi di diseguaglianza e povertà più bassi, oltre a registrare un effetto positivo sulla crescita di impieghi part-time (senza erodere la quota di quelli full-time esistenti). Unico problema: questo fondo nasce dagli introiti delle attività di estrazione mineraria e petrolifera, ma c’è chi l’ha preso a modello per sviluppare strategie di riduzione delle emissioni. L’esempio più noto è quello di Peter Barnes, imprenditore e ambientalista che ha proposto l’istituzione di uno Sky Trust, partendo dall’idea che il cielo sia un bene comune appartenente alla popolazione mondiale: tassando rigidamente ogni emissione che vada ad aggiungere gas serra nell’atmosfera, secondo Barnes, sarebbe possibile istituire un fondo comune da cui ricavare dividendi per i cittadini: una sorta di reddito di base universale, ma ancorato al concetto di bene comune.

Reddito di base universale, servizi di base universali e dividendo del cittadino rappresentano approcci diversi che non necessariamente devono escludersi a vicenda. Tutti e tre inquadrano prospettive interessanti e, a ben vedere, tutt’altro irrealistiche. Considerando che ogni anno vengono investiti migliaia di miliardi di dollari nel comparto fossile, che il divario di reddito nei paesi occidentalizzati sta aumentando a dismisura nonostante il periodo di crisi, considerando una auspicabile riforma di un sistema di tassazione iniquo che non colpisce gli extraprofitti energetici, è chiaro che l’ostacolo principale a misure come quelle che ho descritto in questo articolo non è di natura economica, quanto politica. Si tratta di decidere quale sia la nostra priorità: mantenere questo mondo vivibile, o consentire a una ristrettissima minoranza di continuare ad accumulare denaro, e dunque potere, e perpetuare un sistema sempre più iniquo.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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