Paolo Poli era l'avanguardia vera. Sempre avanti. Si travestiva nel dopoguerra e partecipava ai balli. Faceva le marchette ma non era vero. Era favorevole ai matrimoni gay ma poi diceva: state sempre a parlare del buco del culo?
Spiazzava su Benigni, sull'amore, su tutto. Sordi tirchio, Albertazzi agghiacciante. Capiva sempre qualcosa in più di chi lo intervistava, di chi lo andava a vedere a teatro, di chi ci parlava, di tutti. Per questo, spesso, si annoiava e cambiava argomento. Ti prendeva per il culo, ma lo faceva così bene che te ne accorgevi a intervista finita e a quel punto era tardi per chiamarlo e dirgli: "Signor Poli ma lei mi ha preso per il culo?"
A Firenze si discuteva su quello che diceva, ma nessuna delle persone che conosco, e a cui voglio bene, discuteva lui. Perché Paolo Poli non si discute.
A Firenze quasi tutti hanno un suo ricordo. Qualcuno ha le audio cassette, qualcuno le cassette, qualcuno dice di aver visto un giorno un papillon al mercato e forse era lui, che cantava sotto la gonna di una signora che non si era accorta.
Paolo Poli era l'avanguardia vera, non come quelli che dagli anni '60 ad oggi scrivono sui cartelloni "avanguardia" e poi ruttano in scena, pisciano, amoreggiano, qualcuno addirittura caga in scena perché è teatro d'avanguardia. L'avanguardia era Paolo Poli, quelli rimasti sono pisciatori da commedia. L'avanguardia è finezza suprepa, papillion, trucco e palco. E il suo nome è Paolo Poli.
In teatro non si muore e se si muore si resuscita. E se non si resuscita, signorina, che vuole che sia? Ci rimangono le pose, i volti, il profumo del legno del palco e una voce nei corridoi: "In scena fra cinque minuti". E Paolo Poli che risponde, puntuale: "Me lo ha già detto ieri sera".