Omicidi in famiglia, perché c’è sempre qualcuno che conduce all’assassino
Il delitto di San Martino di Lupari (Padova), con tutti i condizionali del caso, accende nuovamente i riflettori sui cosiddetti family murder, omicidi consumati all’interno delle mura domestiche e tra consanguinei. Diletta Miatello, 51 anni ed ex vigilessa, è stata fermata nella tarda serata di ieri con l'accusa di omicidio dell’anziana madre, Maria Angela Sarto, che di anni ne aveva 84, e con l’accusa di tentato omicidio del padre, Giorgio Miatello.
A dare una spinta alle indagini è stata la sorella della donna. Suggerendo immediatamente, per la ricostruzione della dinamica omicidiaria, di rivolgere l’attenzione nei confronti del sangue del suo stesso sangue.
Una tragedia evitabile? Sicuramente una constatazione granitica. In una società dell’incertezza come quella in cui viviamo, che è anche di incertezza educativa, imparare a gestire i conflitti è troppo spesso un’impresa titanica.
Perché c’è sempre qualcuno che conduce all’assassino?
Quando si verificano gli omicidi in famiglia le dinamiche non sono mai la descrizione drammatica di un attimo. Si tratta anzitutto di figli che decidono in maniera determinata di eliminare la loro principale fonte di sostegno emotivo.
Una scia di sangue, ove il confine tra vittima e carnefice diventa progressivamente più labile. Si mimetizza camaleonticamente fino a dissolversi sfumando i contorni nitidi del ritratto di una famiglia “normale”, apparentemente perfetta. Ma nei fatti contraddistinta da una conflittualità maturata nel tempo e mai appianata.
Parliamo di sentimenti che degenerano piano piano. Non di raptus, termine abusato dal punto di vista giornalistico e che in psichiatria neppure esiste. Tuttavia, pur non esistendo, e ciò è ancor più grave, spesso ne viene fatto un uso giustificazionista ed assolvente.
Nella quasi totalità dei family murder c’è una lunga preparazione ed attitudine alla violenza e all’aggressività, che culmina in un momento conflittuale già precedentemente manifestato. Motivo per il quale, anche nel caso di Padova, c’è sempre qualcuno tra i membri del nucleo familiare che incanala le indagini verso il fratello, o la sorella, omicida.
Non è la prima volta. Basti pensare a Madè Neumair, che disse fin da subito di attenzionare per l’omicidio dei genitori il fratello Benno. O a Letizia Sedita che, qualche settimana fa, puntò immediatamente il dito nei confronti del fratello Salvatore.
Ciò perché, quando la furia assassina è esercitata da una persona adulta, come verosimilmente nel caso dell’ex vigilessa, non si tratta quasi mai di eventi addebitabili a una fase critica temporanea, a influenze esterne o a disagi psichiatrici.
La sorella di Diletta aveva forse percepito il pericolo e anche le ragioni alla base della violenza.
In altri termini, le situazioni familiari violente appaiono più o meno emergenziali. Ma è sempre difficile in questo tipo di dinamiche sporgere formale denuncia nei confronti di un fratello o di una sorella. O, ancor peggio, da un genitore. È piuttosto agevole comprenderne il perché.
Sono pochi i casi di parricidio, come detto, con alla base un disagio psichico. Al contrario, questi delitti originano da un’estrema rescissione di qualsiasi legame con il nucleo familiare, dall'incapacità di gestire i conflitti e dalla completa impossibilità di razionalizzare ed elaborare i propri fallimenti personali.
Pertanto, per i figli assassini l'omicidio rappresenta un ultimo e sanguinario atto di ribellione.
La punta dell'iceberg di un periodo – più o meno duraturo – contornato da aridità emotiva. Si celano carenze affettive e deficit emotivi che progressivamente facilitano l'inevitabile insorgere di personalità disarmoniche e dismaturative.
E, come avviene anche nei parricidi compiuti da adolescenti, il movente economico o futile resta criticamente e disperatamente il più gettonato.
I figli sanguinari non si pentono quasi mai. Perché riconoscere la propria colpa implica iscrivere la pena nel cuore. Una condanna forse ancor peggiore delle sbarre stesse.