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Covid 19

Numeri confusi e false buone notizie: una comunicazione sbagliata ha contribuito al caos coronavirus

Numeri confusi e scostamenti nei dati. Messaggi contraddittori e false buone notizie. Slogan prematuri come “Milano non si ferma” e la scelta controproducente di insistere sulle vittime “anziane e con salute già compromessa”. Anche gli errori di comunicazione da parte delle autorità hanno contribuito ad aumentare il caos e il panico provocati dal coronavirus, portando a comportamenti sbagliati come quelli di chi è andato a sciare, a fare l’aperitivo, è fuggito in treno in piena notte o ha affollato i supermercati.
A cura di Simone Gorla
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Messaggi contrastanti e numeri ballerini. Strani scostamenti nei dati e incertezza sui tamponi e il numero reale dei casi totali. Come siamo passati in dieci giorni dallo slogan "Milano non si ferma" all'intera Italia "zona protetta", con la richiesta di misure ancora più stringenti? Dall'inizio dell'emergenza coronavirus una comunicazione schizofrenica ha contribuito ad alimentare caos e paura. Gli appelli a "non fermarsi" per non danneggiare l'economia sono risultati prematuri, l'insistenza sui deceduti "tutti anziani con un quadro clinico già compromesso" è stata controproducente. I bar prima chiusi, poi riaperti e infine richiusi a metà hanno confuso le idee ai cittadini, così come i numeri incompleti che a un certo punto hanno fatto pensare a un calo dei contagi e dei ricoveri in ospedale: tutto questo ha dato spazio ad alcuni comportamenti poco responsabili e favorito involontariamente il dilagare dell'epidemia.

I primi giorni dell'emergenza: polemiche e zone rosse

L'allarme per l'arrivo del virus in Italia è scattato nella notte tra il 20 e il 21 febbraio, quando è risultato positivo il tampone del ‘paziente uno', il 38enne podista ricoverato all'ospedale di Codogno. Quarantotto ore dopo i casi accertati in Lombardia sono già un centinaio, a cui si aggiungono i malati di Vo' Euganeo nel Padovano. Si registrano i primi decessi. Tutti si concentrano sulla difficile situazione degli undici comuni del Lodigiano, nessuno ancora pensa che l'emergenza possa diventare nazionale. Vengono istituite le zone rosse nei comuni più colpiti e la zona gialla in tutta la Lombardia. Si continua ad andare al lavoro, chi può lo fa da casa. I bar vengono chiusi, ma solo dopo le 18. Tre giorni dopo saranno riaperti con consumazione solo al tavolo. Passate le prime ore di paura, la vita sembra riprendere. Eppure il 26 febbraio sono già 259 i contagiati lombardi. Tra loro anche una stretta collaboratrice del governatore Attilio Fontana, che si mette in auto quarantena con un discusso video in indossa la mascherina in diretta. Intanto scoppia anche lo scontro tra Governo e Regione. Il premier Conte accusa il pronto soccorso di Codogno di non aver rispettato i protocolli e minaccia di avocare la gestione della sanità all'esecutivo.

27 febbraio: il giorno delle false buone notizie e degli appelli sbagliati

È possibile individuare il giorno in cui la comunicazione dell'emergenza ha preso per la prima volta una strada sbagliata? Sì, è successo il 27 febbraio. A cinque giorni dai primo caso, le autorità sembrano cambiare linea e iniziano a trasmettere messaggi più positivi. Regione Lombardia insiste sulle "buone notizie": ci sono 37 pazienti guariti e meno persone ricoverate negli ospedali, il ceppo italiano del virus è stato isolato al Sacco. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, diffonde sui suoi canali social uno spot, ripreso poi da tutte le televisioni, con lo slogan "Milano non si ferma". L'obiettivo è tranquillizzare il mondo e provare a scongiurare danni economici troppo pesanti. Anche Matteo Salvini diffonde un appello in cui chiede di "riaprire tutto quello che si può riaprire" e "rilanciare fabbriche, negozi, musei, gallerie, palestre, discoteche, bar, ristoranti" Nella stessa giornata viene comunicato che il Duomo di Milano riapre ai turisti. Si pensa che la situazione stia migliorando. Come si vedrà in seguito, non è affatto così.

L'emergenza nelle terapie intensive

Passa un giorno e il 28 febbraio la musica cambia di nuovo. Si inizia a capire che c'è un grave problema nelle terapie intensive degli ospedali lombardi. Viene comunicato che il 10 per cento dei contagiati ha bisogno di cure intensive e assistenza per respirare. A Lodi arrivano cento persone al giorno in condizioni critiche. Anche i presidi di Codogno, Cremona e Alzano Lombardo vanno in crisi. Il personale è allo stremo. Si comprende anche che il virus ha una contagiosità molto più alta del previsto: ogni persona malata ne contagia altre due. Solo in Lombardia ci sono 531 casi positivi su 4835 tamponi, 85 persone in terapia intensiva, 17 deceduti.

Deceduti "anziani e con salute compromessa"

Il 29 febbraio viene decisa la chiusura delle scuole per un'altra settimana. I positivi salgono a 615, i deceduti sono 23. Si continua a insistere sull'età e le condizioni critiche delle vittime: "Sono tutti anziani con quadro clinico compromesso", ripete ogni giorno l'assessore lombardo Giulio Gallera. L'obiettivo è quello di tranquillizzare, ma c'è un effetto collaterale. Molti giovani iniziano a pensare che il problema di Covid-19 non li riguardi e continuano ad affollare locali e zone della movida. I medici saranno costretti a fare appello al buon senso spiegando che tutti possono trasmettere il virus e contribuire all'epidemia. Intanto i casi aumentano, ma non in modo esponenziale come si temeva: in Lombardia sono 984 il 1 marzo.

Scuole chiuse e richiesta di zona rossa nella Bergamasca

La seconda settimana di emergenza prosegue con lo stesso l'andamento ondivago della prima. A momenti di allarme – quando risulta positivo l'assessore lombardo Mattinzoli, quando si ha notizia dei primi neonati contagiati – si alternano continui appelli a dare sollievo all'economia. Il 4 marzo il governo decide (dopo una iniziale smentita) di chiudere tutte le scuole italiane fino al 15 marzo. La Lombardia e Istituto superiore di sanità chiedono di allargare la zona rossa anche ai comuni di Alzano Lombardo e Nembro, nella Bergamasca, dove intanto i contagi aumentano.

Scostamenti sui numeri ed errori: il pasticcio di Brescia

Il racconto dell'emergenza e le decisioni prese dalle autorità si basano sui numeri in continuo aggiornamento. Contagiati, pazienti ricoverati, intubati in terapia intensiva, dimessi in isolamento. Ogni giorno le conferenze stampa della Protezione civile a Roma e di Regione Lombardia a Milano fanno il bilancio. Ma qualcosa non funziona. I numeri non sempre tornano. Emblematico quanto avviene tra giovedì 5 e venerdì 6 marzo, quando i contagiati in tutta Italia passano da 2858 a 3916, in Lombardia da 2251 a 2612. Improvvisamente il contagio ha rallentato. Pare un'ottima notizia. Ma non tutti sono convinti: il dato è troppo basso rispetto all'andamento molto allarmante riscontrato in alcune province (Bergamo in particolare). Inoltre il numero dei nuovi ricoverati ha avuto un'impennata (circa 500 i più).

Nessuno conosce il dato reale dei casi positivi

Come si spiega? Il primo errore è presto scoperto: nel conteggio del 6 marzo mancavano numerosi tamponi. L'indomani arrivano in blocco di circa 300 tamponi positivi provenienti da Brescia che non erano stati processati. Il rallentamento quindi non c'è. In più è ormai evidente che i tamponi vengono fatti solo ai malati che arrivano in ospedale. Dopo i primi giorni non si controllano più tutti i parenti e i contatti delle persone infette. Quindi sfuggono ai conteggi moltissimi potenziali positivi asintomatici. Secondo la virologa Ilaria Capua i casi sarebbero molti di più rispetto a quello che si ritiene, ma questo è anche positivo perché significa che la mortalità è più bassa di quanto pensiamo.

L'esplosione del contagio e le misure nazionali

Sono passate ormai due settimane dall'inizio dell'emergenza e nessuno ha avuto il coraggio di prendere misure ferree. Solo nelle zone rosse di Codogno e Vo' Euganeo ci sono controlli e limitazioni vere. E infatti la situazione migliora. Nel resto della Lombardia tutto è come prima. Tanto che nella giornata di sabato 7 marzo le piste da sci sono affollate di turisti, i parchi e locali di Milano pieni di gente. Quasi nessuno sembra aver percepito la gravità della situazione. Eppure ormai i numeri stanno salendo a ritmi angoscianti. Il 7 marzo ci sono 5061 casi in Italia, 3420 in Lombardia, con 233 deceduti. Negli ospedali lombardi sono 1161 i pazienti ricoverati, 359 in terapia intensiva. L'8 marzo i positivi schizzano a 7375 a livello nazionale, 4189 in Lombardia. I decessi sono 366 (267 lombardi).

Il 9 marzo ci sono 7985 infettati, 5469 in Lombardia, con 463 vittime (333 lombarde). L'epidemia è fuori controllo e arriva il secondo decreto del presidente del Consiglio. Dopo quello (anticipato sui media con l'effetto di scatenare il panico e la fuga di migliaia di persone da Milano verso le regioni del Sud) che prevede l'isolamento per la Lombardia e per altre 14 province, con divieto di movimento se non per lavoro, motivi di salute o necessità, il giorno successivo un altro provvedimento estende la norma a tutto il territorio nazionale.

I dati positivi nell'ex zona rossa: passi avanti, ma serve prudenza

Alle 18 di martedì 10 marzo, primo giorno di entrate in vigore della "zona protetta" su tutta la penisola, i casi totali sono 10149, al momento sono 8514 le persone che risultano positive al virus. Le persone guarite sono 1004. I pazienti ricoverati con sintomi sono 5038, in terapia intensiva 877, mentre 2599 si trovano in isolamento domiciliare. I deceduti sono 631. Numeri confortanti arrivano dall'ex zona rossa del Lodigiano, dove i nuovi contagi sono in calo. Il governatore lombardo Fontana porta il trend positivo di Codogno come prova che le misure rigorose funzionano. Ma anche su questi dati è necessario essere prudenti. "Sarei un pochino critico nel dire che a Codogno non ci sono stati più casi" ha affermato il medico di base di Codogno, Marcello Natali, "secondo me ci sono altri casi che non sono stati ancora diagnosticati".

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