Il 3 novembre sono stata contattata da diverse persone su Instagram che mi hanno segnalato la storia di Noemi De Vitis, una giovane ragazza molestata da un sedicente ginecologo che le ha chiesto di poterla visitare in videochiamata. Quello che mi ha colpito dei messaggi che mi sono inviati è stata la call to action: se è capitato anche a voi, denunciate tutto a Noemi. Più tardi mi sono arrivati altri messaggi in cui, oltre a Noemi De Vitis, si chiedeva di denunciare ad altre influencer di Instagram. Mi sono chiesta per quale motivo, se fossi stata molestata o se avessi subito un tentativo di molestia, avrei dovuto scrivere a una sconosciuta sui social anziché rivolgermi alle forze dell’ordine.
Ho svolto una breve ricerca e tra i tanti articoli che ricostruivano l’accaduto mi sono imbattuta in quello firmato a Martina Micciché, fotografa, attivista e curatrice del blog Always Hitaka insieme a Saverio Nichetti. Nell’articolo viene raccontato che De Vitis in effetti si è rivolta alle forze dell’ordine che però “le offrono un’accoglienza inadeguata, sminuendo la gravità della situazione. Sottolineano che il numero di aggressori sessuali è ben nutrito e che ne saltano fuori di nuovi ogni giorno”. Quindi, di fronte al fatto che le violenze aumentano, la risposta delle forze dell’ordine non è richiedere più controlli, ma rimandare le vittime a casa chiedendo loro di arrangiarsi.
Solo allora Noemi De Vitis decide di rivolgere un appello alla Rete e grazie al passaparola non solo raccoglie centinaia di testimonianze come la sua – le sono arrivate sia dalla sua regione, la Puglia, ma anche dal Lazio e dalla Lombardia – ma riesce ad attivare una rete di supporto legale e psicologico in varie parti d’Italia, in modo da fornire a lei e a chi come lei non ha ricevuto la giusta assistenza, il modo di sporgere denuncia e di ricevere aiuto.
Noemi De Vitis, insomma, si è sostituita allo Stato. Il problema dunque non è che ci siano state delle denunce via Instagram, ma che per centinaia di donne Instagram sia diventato il canale più rapido ed efficace per far sentire la loro voce e ricevere sostegno.
Non è la prima volta che accade e non è la prima volta che accade quest’anno che la violazione della privacy da parte del personale sanitario avvenga sui social. A giugno, nel pieno della campagna vaccinale, l’account Cara sei maschilista aveva raccolto centinaia di testimonianze di donne che erano state contattate da medici e infermieri dopo la somministrazione del vaccino: queste persone, venute a conoscenza di nome, cognome e spesso del numero di telefono delle pazienti le contattavano – spesso con insistenza – per chiedere un appuntamento. Anche se tal volta non si spingevano a tanto, molte ragazze raccontavano di essere state anche solo approcciate con una richiesta di amicizia o con un messaggio in direct, come se medici, dottori e infermieri avessero scambiato il vaccino per una specie di Tinder dal vivo. Una storia che per certi versi ricorda quella accaduta a Noemi De Vitis e alle altre donne che si sono rivolte a lei: anche in questo caso, la persona che le ha contattate era in possesso a delle informazioni così dettagliate sulla salute delle vittime, che tutto fa presumere che si trattasse di un medico o di una persona in grado di accedere alle loro cartelle cliniche. Qui però, a differenza del caso delle persone contattate dopo aver fatto il vaccino, il molestatore si è spinto fino a chiedere di effettuare delle visite analizzando le parti intime delle pazienti e questo avrebbe dovuto mettere in allarme le forze dell’ordine, cosa che in effetti non è successa.
Quello denunciato da Noemi De Vitis non è un caso isolato non solo per via delle tante donne che hanno raccontato di aver subito una violenza simile ma perché solo qualche mese fa la Commissione del Senato contro il Femminicidio aveva denunciato l’impreparazione del personale giudiziario a raccogliere e gestire casi di violenza domestica, violenza sessuale e molestie contro le donne. ”La Convenzione di Istanbul, che prescrive di rendere concreto il diritto delle vittime alla protezione, resta in larga parte ancora disattesa – si legge nel documento -. Serve molta più formazione e specializzazione per riconoscere e con affrontare con efficacia la violenza contro le donne, sanzionarla, prevenire escalation, sostenere le donne che denunciano”; che, tradotto in soldoni, significa che se una vittima di violenza si rivolge alle forze dell’ordine è facile che chi si occupa di gestire il suo caso non sia in grado di riconoscere la gravità del reato subito. Ma non solo, vuol dire che se anche il caso dovesse arrivare in tribunale il personale giudiziario, che comprende anche giudici, avvocati e pubblici ministeri, potrebbe non cogliere la gravità della denuncia e non commutare le pene adeguate. Le conseguenze possono essere gravi, come nel caso di Vanessa Zappalà, la giovane siciliana uccisa dal suo ex compagno dopo averlo denunciato per percosse e per stalking.
La storia di Noemi De Vitis è solo l’ultima storia di mala giustizia in ordine di tempo; nonostante i ripetuti episodi e nonostante le numerose segnalazioni, la politica e l’opinione pubblica sembrano non voler cogliere la gravità della situazione. Al contrario editorialisti e opinionisti di ogni latitudine continuano a prendere in giro attiviste e attivisti impegnati nel sensibilizzare soprattuto le persone più giovani sul tema delle pari opportunità. Ma se la Politica, le istituzioni e i media continuano a ignorare il problema e a occuparsi delle donne solo dopo che vengono uccise, non ci si può lamentare se la gente comune si rivolge a Instagram per essere ascoltata.