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Cambiamenti climatici

Perché non possiamo sconfiggere la crisi climatica senza erba (no, non quella)

Il prato all’inglese rischia l’estinzione: sì, perché la crisi climatica sta cambiando anche il nostro concetto di prato.
A cura di Fabio Deotto
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(Ezra Shaw/Getty Images)
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A Las Vegas hanno stabilito una data di scadenza per i prati: entro il 2027 chiunque possieda una casa in città dovrà sbarazzarsi del tappeto erboso davanti casa. Il motivo è facilmente intuibile: mantenere un prato domestico, di quelli che hanno poca varietà di specie e vanno costantemente rasati, richiede ingenti quantità d’acqua; e l’acqua in Nevada, come in California, come in altre zone sempre più estese in tutto il mondo, scarseggia ogni anno di più. È una delle tante notizie riconducibili alla crisi climatica che hanno come oggetto i prati, il che sulle prime può apparirci bizzarro: siamo abituati a considerare i tappeti erbosi come l’equivalente curato dei prati selvatici, quando in realtà, tra un prato all’inglese e un prato selvatico esistono differenze enormi. Una su tutte: mentre il primo è poco sostenibile e problematico a livello climatico, il secondo è un alleato insostituibile nella lotta al riscaldamento globale. Per capire perché, è necessario fare un salto indietro e vedere come i prati si siano evoluti nel corso della storia.

Senza prati erbosi la civiltà umana non esisterebbe

Oggi viviamo in un pianeta verde, in cui le piante coprono il 70% delle terre emerse, e quelle erbacee in particolare occupano quasi la metà dei terreni non coperti da ghiacci. Siamo abituati a dare per scontato che ogni fazzoletto di terra del globo sia occupato da prati più o meno incolti; il che è curioso perché, in realtà, fino a 100 milioni di anni fa sul nostro pianeta non esisteva un solo filo d’erba. A dominare erano gli alberi, e se, a partire da 30 milioni di anni fa, le varie specie di graminacee non avessero cominciato a colonizzare i diversi ambienti terrestri, l’evoluzione della vita sul nostro pianeta sarebbe stata assai diversa.

Basti pensare a come, in quelle che oggi sono le grandi pianure americane, il crollo delle temperature portò alla scomparsa di alcune specie arboree, incapaci di resistere in un clima tanto freddo e tanto secco: al loro posto trionfarono le piante erbacee, che avevano sviluppato una fotosintesi più efficiente, ed erano in grado di sopravvivere in condizioni di scarsità idrica. La diffusione dei prati erbosi ha favorito la diffusione e l’evoluzione delle specie erbivore che oggi dominano le steppe e le savane; non solo, la distribuzione sempre più estesa delle poacee ha consentito all’essere umano di avere varietà di cui cibarsi (il mais, il sorgo, il granturco, il miglio, l’avena: tutte poacee), e di avere di che nutrire le bestie da allevamento (per la quasi totalità erbivore).

Insomma, senza l’erba difficilmente l’essere umano si sarebbe diffuso con la stessa rapidità, e difficilmente la nostra civiltà sarebbe cresciuta al punto da causare la crisi climatica in cui ci troviamo. Eppure oggi le distese erbose sono tra i biomi più trascurati in assoluto – stanno sparendo a un ritmo più rapido delle foreste – e questo nonostante siano fondamentali per la nostra sopravvivenza, oltre a essere alleati cruciali nella lotta al riscaldamento globale.

Non possiamo fare a meno dell’erba, soprattutto oggi

L’abbiamo detto e ripetuto: se vogliamo combattere una crisi climatica che già oggi si dimostra letale a livello umano e disastrosa a livello economico, dobbiamo smettere di immettere carbonio nell’atmosfera, e favorire tutti quei processi che ne possono diminuire la concentrazione. Per fortuna, il nostro pianeta è pieno di ecosistemi capaci di catturare anidride carbonica – dagli oceani, alle paludi, alle foreste. Ma se si parla frequentemente di riforestazione e afforestazione (spesso anche a sproposito), si tende a dimenticare che i prati selvatici sono dei formidabili serbatoi di carbonio. Studi recenti, infatti, hanno valutato che le piante erbacee custodiscono tra il 15% e il 30% di tutto il carbonio presente sulla Terra.

Per comprendere come ciò sia possibile dobbiamo tenere conto che la stragrande maggioranza di queste varietà vegetali sopravvive grazie a una relazione simbiontica con microrganismi fungini localizzati in corrispondenza delle sue radici: questi microrganismi consentono di amplificare ed estendere il raggio d’azione del sistema radicale della pianta (che così può acquisire nutrienti altrimenti inaccessibili), in cambio la pianta fornisce loro il carbonio di cui hanno bisogno.

Ma i prati non sono utili solo in termini di mitigazione, ossia di riduzione dell’anidride carbonica nell’aria, ma anche in termini di adattamento, ossia come argine ad alcune ricadute della crisi climatica; una su tutte: le alluvioni. Un terreno erboso ben radicato, infatti, è in grado di assorbire e trattenere più acqua, il che rappresenta un fattore decisivo per rallentare e ridurre l’intensità delle inondazioni; inoltre l’erba aiuta a contrastare l’erosione del suolo, altro fattore decisivo nel complesso intrico di dinamiche della crisi climatica.

(Thomas Lohnes/Getty Images)
(Thomas Lohnes/Getty Images)

L’irrecuperabile armonia dei prati antichi

E allora perché a Las Vegas, come in altri luoghi, è partita una battaglia ai tappeti erbosi? Per farla breve: perché non tutti i prati sono uguali. La maggior parte dei terreni erbosi più curati, dai campi sportivi, ai foraggi, ai giardini delle abitazioni, sono caratterizzati da una predominanza di poche specie, come Lolium e Agrostis, che richiedono ingenti quantità di acqua e sono perciò particolarmente sensibili alla siccità. Queste piante hanno radici che si estendono poco in profondità, il che rende più semplice rimuoverle a seconda dei bisogni, ma allo stesso tempo consente una minore fissazione di carbonio nel suolo. E poiché si tratta di specie invasive, che tendono a prevalere a discapito di altre varietà erbose, i prati più curati sono sì quelli più uniformi, ma anche quelli con meno biodiversità; non bastasse, richiedono un massiccio utilizzo di pesticidi, il che va ridurre ulteriormente i benefici che un prato selvatico invece garantisce.

Attenzione, però: quando parliamo di “prati selvatici” non stiamo parlando soltanto di prati incolti, lasciati crescere in modo disordinato, bensì di veri e propri ecosistemi caratterizzati da una fitta collaborazione di specie, non solo vegetali, ma anche animali e microbiche, un processo di interconnessione che richiede secoli per consolidarsi.

L’estate che è appena trascorsa è stata una delle più calde e devastanti di sempre, la crisi climatica ha causato eventi siccitosi senza precedenti a livello di intensità ed estensione, che oltre a prosciugare fiumi e far collassare colture, hanno sterminato ampie zone erbose. La cosa interessante è che i prati più curati, caratterizzati da minore biodiversità e minore capacità di trattenere acqua, sono quelli che sono morti per primi; i prati antichi e vergini, invece, sono quelli che hanno resistito meglio.

Il che è allo stesso tempo motivo di speranza e di scoramento: perché se è vero che gli ecosistemi erbosi rappresentano un ottimo alleato nella lotta alla crisi climatica, è anche vero che sono quelli che siamo più propensi a sacrificare: che si tratti di trovare del terreno per una coltivazione, per un pascolo o – triste ironia – per interventi di afforestazione, la soluzione spesso è sbarazzarsi dei prati selvatici.

C'è un grande prato bruno: un cambio di sguardo

Che fare allora? Abbiamo visto che ripristinare i prati antichi non è possibile, perciò come prima cosa dovremmo occuparci di preservare quelli esistenti. La seconda cosa che possiamo fare è smettere di piantare Lolium e Agrostis, andando magari a recuperare specie native più adatte a sopravvivere ai climi caldi e capaci di resistere (seppur entrando in stato dormiente) alle stagioni più rigide. Alcuni anni fa, un gruppo di ricerca britannico ha isolato una nuova varietà, nata dall’ibridazione tra Lolium e Festuca, capace di garantire un’elevata capacità filtrante e dunque ideale per contrastare il ruscellamento durante le alluvioni. Ma quando si parla di crisi climatica è necessario considerare più fattori in parallelo, e se anche l’introduzione di una nuova varietà preponderante potrebbe essere utile nel contrastare le alluvioni, non favorirebbe lo sviluppo di una maggiore biodiversità, e di quell’intreccio di funzioni biologiche necessario allo sviluppo di un vero e proprio ecosistema.

Su queste pagine abbiamo spesso sottolineato come combattere la crisi climatica richieda un cambio di sguardo; ecco: se oggi abbiamo un certo concetto di “prato curato” è perché, prima nell’Inghilterra del XVII secolo, poi negli USA del XIX e XX secolo, il tappeto erboso monocromo e a foglia fine è diventata la norma, una sorta di status symbol, oltre che un surrogato controllabile di quella “natura” che sempre più spesso veniva occupata da ambienti urbani. Questo tipo di prato è destinato a scomparire e prima ci abituiamo all’idea meglio è: i prati di un mondo decarbonizzato saranno terreni erbosi caratterizzati da una maggiore varietà di specie, in particolare di specie resistenti come il trifoglio, il timo, ma anche la menta e la fragola; saranno prati che nelle stagioni invernali non rimangono verdi, ma assumono il colore brunastro tipico della fase dormiente delle piante perenni; saranno prati brulicanti di microrganismi, capaci di sequestrare più carbonio e di trattenere più acqua. Saranno meno belli, almeno stando ai parametri estetici a cui siamo abituati; ma per fortuna i parametri estetici cambiano, e non passerà troppo tempo prima che un prato all’inglese ci sembrerà un’assurdità innaturale.

E allora: piuttosto che costringere le persone a sbarazzarsi del prato casa, come sta accadendo a Las Vegas, avrebbe più senso abituarli all’idea che un prato sempreverde è un’illusione costosa e insostenibile; il residuo spettrale di un mondo che ha già smesso di esistere.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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