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Nicoleta Rotaru ha registrato il suo omicidio perché aveva paura che nessuno le credesse

Nicoleta Rotaru, la 39enne uccisa dal marito Erik Zorzi a Monteortone (Padova), ha avuto bisogno di costituirsi una prova, di registrare il suo omicidio col cellulare, per essere creduta, per far si che le sue due figlie sapessero la verità.
A cura di Margherita Carlini
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Nicoleta Rotaru, 39 anni, era stata trovata cadavere nel bagno della sua abitazione di Monteortone in provincia di Padova, con una cintura di pelle stretta intorno al collo. A dare l’allarme la notte del 2 agosto dello scorso anno, era stato il marito, Erik Zorzi, 43 anni. Zorzi aveva chiamato il 118 di Padova, richiedendo un intervento perché, a suo dire, la moglie era chiusa in bagno da oltre due ore e lui aveva paura che fosse morta.

In un primo momento per gli inquirenti, quella morte era da attribuirsi ad un suicidio, un gesto anticonservativo posto in essere da Nicoleta, nonostante i moltissimi elementi emersi che risultavano incompatibili con un'ipotesi di quel tipo.

Primi tra tutti gli esiti dell’autopsia e le modalità con cui Nicoleta si sarebbe uccisa: stringendosi al collo una cintura di pelle, con la fibbia all’altezza della nuca, senza ancorarla a nessun punto, stretta da sola così, fino alla morte. Difficile accostare anche il profilo vittimologico della donna a quello di una persona che vuole farla finita. Nicoleta aveva deciso di separarsi da Zorzi ad inizio del 2023 ed aveva una relazione con un altro uomo, lo stesso con il quale era andata a passeggiare la sera del primo agosto, aveva prenotato una vacanza per lei e le sue due bambine, sarebbero dovute partire il 5 agosto, e al ritorno da quella vacanza avrebbe ottenuto un contratto a tempo indeterminato, una condizione di stabilità economica che le avrebbe consentito di trasferirsi in un altro appartamento con le figlie.

Una progettualità a breve e medio tempo che, dicevamo, mal si concilia con un gesto autolesivo. Ed infine la scena del crimine: Zorzi riferisce agli operatori del 118 che sua moglie (non fa riferimento nel corso della chiamata alla separazione) è chiusa nel bagno e non risponde, ma quando i sanitari intervengono riescono a buttare giù la porta molto facilmente "come se qualcuno lo avesse appena riattaccato", riferiranno. Perché dunque il marito non ha provato ad entrare in quel bagno se era tanto preoccupato per le condizioni di salute di sua moglie? O ha manomesso lui, esperto in lavoretti di bricolage, il montante di quella porta? È da questi elementi che gli inquirenti iniziano ad indagare, ma la vera svolta sarebbe arrivata dalle richieste avanzate dai legali della donna che avrebbero presentato più volte istanza per richiedere un’analisi informatica sul cellulare della donna.

È dal cellulare di Nicoleta che emerge infatti la verità. Una verità che risulta essere il triste epilogo di quella situazione di maltrattamento che le testimonianze dei vicini avevano ricostruito e che sicuramente i legali di Nicoleta conoscevano.

Erik Zorzi.
Erik Zorzi.

Vengono riferiti infatti ben sette interventi dei Carabinieri presso l’abitazione coniugale tar il 2021 ed il 2023, per "sedare liti" che appare più opportuno definire aggressioni fisiche e verbali che Nicoleta subiva da tempo. Sembra che l’uomo la umiliasse, la aggredisse e che fosse arrivato a minacciarla di morte nel caso in cui lei avesse deciso di andarsene con le bambine. Cosa che Nicoletta voleva fare. E allora, come spesso succede in questi casi, Nicoleta, forse proprio dietro consiglio dei suoi legali, aveva iniziato a registrare con il cellulare quelle aggressioni. Aveva da tempo iniziato a costituirsi delle prove. Forse perché sapeva che la separazione con Zorzi non sarebbe stata facile, d’altronde lui glielo aveva detto espressamente o per utilizzarle nel caso avesse deciso di sporgere denuncia o forse per affrontare l’iter civile di affidamento delle minori, per cercare di tutelarle al meglio.

Sicuramente Nicoleta aveva iniziato a raccogliere prove per paura di non essere creduta.

Ciò accade spesso in situazioni come queste, quando cioè una donna tenta di emanciparsi da una relazione maltrattante, cercando di tutelare i figli minori ed incorre invece in processi di vittimizzazione secondaria ed istituzionale.

Circostanze che si verificano quando la donna che riferisce di aver subito violenza, nel contesto penale o in quello civile, non viene creduta. Nonostante ormai sia stato più volte ribadito da numerose sentenze di Cassazione, e quindi sia giuridicamente accettato che le dichiarazioni della persona offesa possono essere poste a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, è pratica comune richiedere alle donne di produrre elementi a supporto delle loro parole e, come rilevato anche dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nel 96% delle cause giudiziali di separazione con affido davanti ai Tribunali civili, in caso di allegazioni di violenza, non vengono approfonditi gli atti relativi alle violenze e nel 77% dei casi la violenza non viene nominata o viene  confusa con il conflitto. Un’incapacità di riconoscere la violenza e di attivarsi a tutela delle vittime, siano esse donne e minori, che innalza inevitabilmente il rischio ed ha un effetto rivittimizzante.

Forse proprio per cercare di evitare queste conseguenze, Nicoleta registrava di nascosto, con il suo cellulare, le aggressioni che subiva dal suo ex marito. Così aveva fatto anche la notte tra l’1 ed il 2 agosto attivando la modalità registrazione e riponendo il cellulare sul suo comodino. È proprio grazie a lei che a distanza di più di un anno gli inquirenti hanno ricostruito la dinamica dei fatti, di un’aggressione dapprima verbale e poi fisica che si sarebbe consumata proprio in quella camera da letto. È stata necessaria una registrazione per poter dire che quello di Nicoleta è stato un femminicidio, nonostante i numerosi interventi delle forze dell’ordine, nonostante le pregresse aggressioni, nonostante le minacce di morte. Nicoleta ha avuto bisogno di costituirsi una prova per essere creduta, per far si che le sue due figlie sapessero la verità.

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Sono Psicologa Clinica, Psicoterapeuta e Criminologa Forense. Esperta di Psicologia Giuridica, Investigativa e Criminale. Esperta in violenza di genere, valutazione del rischio di recidiva e di escalation dei comportamenti maltrattanti e persecutori e di strutturazione di piani di protezione. Formatrice a livello nazionale.
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