È tutto un parlare di legalità, da tutte le parti, ognuno con la propria interpretazione del diritto come se la legge fosse qualcosa di cui disquisire al bar, al pari della formazione per la partita della domenica o dei gusti preferiti del gelato. In quest'Italia perennemente in emergenza sono tutti pronti a chiedere ad alta voce il rispetto della legge quando a rispettare la legge devono essere gli altri, pronti a sezionare il comportamento di chi consideriamo avverso e tragicamente indulgenti con i nostri sodali: è il sovranismo indulgente che chiede agli altri di fare quello che diciamo, mica quello che facciamo come se il diritto e le convenzioni internazionali fossero solo atti di indirizzo da sventolare se ci tornano utili oppure da tenere nel cassetto se ostacolano le nostre più disparate tesi. Così accade che dal Centro di Permanenza e Rimpatrio di Torino arrivi una storia che, se confermata, dipinge un'Italia quasi libica nelle condizioni di illegalità dei suoi detenuti, dove i diritti sono calpestati in nome dell'invisibilità di queste persone in attesa di essere rimpatriate.
La storia che racconta Davide Falcioni per Fanpage.it è quella di un trentaduenne bengalese (che si chiamerebbe Sahid Mnazi) morto dopo quindici giorni di isolamento in un qualcosa che sembra una gabbia per polli sotto il sole a picco, probabilmente per motivi sanitari. Raccontano gli ospiti del centro che il giovane sarebbe stato vittima di uno stupro e per questo sarebbe stato piazzato lì, dentro celle che basterebbe guardare per avere un conato. Era disperato, Sahid, e in molti avevano chiesto che fosse portato all'ospedale più vicino e sottoposto alle cure del caso. La Questura di Torino afferma di non avere mai ricevuto nessuna notizia di violenza sessuale ma spunta una mail inviata la mattina del 25 giugno che racconta nei dettagli proprio un episodio di violenza all'interno del centro, oltre che dell'atteggiamento piuttosto superficiale di chi invece dovrebbe tutelare le persone ospitate nel Centro.
Ora la giustizia, ci auguriamo, farà il suo corso e stabilirà le cause del decesso ma la vicenda è uno squarcio inquietante su una realtà che non viene mai ben raccontata: i CPR (che volle Minniti in sostituzione dei CIE) sembrano il bidone dell'umido di un Paese che tratta i detenuti (e mica solo quelli stranieri, mica solo nei CPR) come percolato di cui disfarsi il più velocemente possibile. Raccontano gli ospiti che gli addetti della struttura gli abbiano detto «è inutile che denunciate, non avete i documenti e non potete sporgere querela» come se esistesse un limbo extra legem in cui i diritti dell'uomo restino sospesi senza nessuna possibilità d'appello. Ed è una storia che fa paura perché si inserisce in un percorso sempre più buio, ogni giorno che passa. Sarà anche per questo che non vediamo l'ora che venga smentita e che ci venga raccontata per intero.