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Nassiriya dieci anni dopo: il dolore e l’altra immagine di un sacrificio

A dieci anni dal tragico attentato al contingente italiano in Iraq, la partecipazione di nostri militari alle “missioni di pace” resta un contrasto tra le finalità di quegli interventi i princìpi della Costituzione.
A cura di Enrico Campofreda
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Fra le “Dieci e cento Nassirya” gridato in faccia ai carabinieri dai settori più oltranzisti dell’opposizione sinistrorsa e lo stupore dell’italiano medio al sanguinario attentato alla nostra “missione di pace” (12 novembre 2003, base “Maestrale” della Multinational Specialized Unit) in una delle guerre più losche e ideologiche lanciate dal bellicismo statunitense, c’è tutta l’ambiguità dell’alternanza politica italiana nella cosiddetta seconda Repubblica. Un centrodestra e un centrosinistra speculari sul versante estero e totalmente asserviti alle decisioni della Casa Bianca che – sull’onda dell’attacco preventivo all’asse del Male voluto da Bush jr e dai neocon, dal lobbismo di petrolieri e fabbricanti d’armi che li sostenevano, dal “Patriot act” divenuto legge – s’accodavano alla “caccia al terrorismo” pensando di tenersi ai margini d’una santa Barbara. Se per caso la polveriera deflagra giungono stupore e sbigottimento, amplificati, assieme a un decontestualizzato patriottismo, da un’ampia compagnìa mediatica maestra nella propaganda. Le vittime sono una buona fetta dell’opinione pubblica e quei giovani che vestono la divisa e s’arruolano, pensando di essere portatori di pace (sic). Li chiamano così rendendoli, in troppi casi, vittime a tutto tondo.

Quel mattino di dieci anni fa alle 8:40 italiane diciassette di loro diventavano brandelli e frammenti, mescolati a quintali di polvere. Disintegrati anche i corpi di altri due italiani, un cooperante e un regista, e di nove iracheni impiegati nella struttura. Un camion imbottito d’esplosivo lanciato contro la palazzina seminava morte, sangue dei feriti, strazio dei familiari e di una nazione intera. Un milite, smembrato anch’egli dal botto, contenne la strage uccidendo i kamikaze il cui ordigno a quattro ruote si schiantava su un cancello d’ingresso, limitando il numero dei morti. Su quelle bare si riversarono lacrime, dolore, indignazione, retorica ma poche domande sul ruolo dei carabinieri impiegati in quell’Unità specializzata, già attiva in Bosnia e Kosovo per compiti di pubblica sicurezza. In un Paese invaso e bombardato com’era da otto mesi l’Iraq si doveva necessariamente tenere l’allerta a mille. Chiunque vestisse quelle divise, in quel luogo, non poteva non sapere di trovarsi in guerra e di essere un potenziale bersaglio. Se il capo di Stato Maggiore dell’epoca, il ministro della Difesa Martino, il premier Berlusconi, il presidente Ciampi sostenevano il contrario illudevano sessanta milioni di cittadini oltre se stessi.

L’obiettivo americano di far cadere la creatura d’un tempo, il dittatore alleato Saddam Hussein, cercava grandi pretesti. Però le “armi di distruzione di massa” non erano state trovate, né lo furono in seguito. Eppure la “coalizione dei volenterosi” (per 87% marines statunitensi) iniziava l’invasione e in due mesi occupava l’intero territorio. Fino a quel momento l’Iraqi Freedom, dai nostri vertici militari culturalizzata in Antica Babilonia, aveva contenuto gli strazi di civili. Non era stato ancora catturato Saddam, stanato dalla famosa buca e condannato a morte dopo un processo accelerato e sommario. Ma nella primavera del 2004 la resistenza si diffondeva, a cominciare dall’esercito del Mahdi che nel sud guidava una ribellione di massa dell’etnìa sciita. I bombardieri continuano a decollare e sganciare, lo faranno per anni disgregando corpi come a Nassirya, con la differenza che quegli iracheni la guerra non l’hanno mai voluta né cercata. 70.000, 650.000 quanti sono stati i morti sotto lo bombe? Non lo sapremo mai. Sappiamo di certe crudeltà, di attentati, rapimenti, esecuzioni soprattutto quelli che parlano italiano, contractor alla Quattrocchi, volontari come Baldoni e lo 007 Calipari, stroncato dal fuoco degli amici americani.

Sappiamo, ma la retorica che reitera spesso dimentica, tant’è che missioni simili il Parlamento continua a finanziarle. Sappiamo che nella melma irachena si rotolavano i marines di Abu Ghraib godendo nel farsi  fotografare col nemico al guinzaglio e quelli di Haditha che non erano migliori. Quindi gli avieri che sparavano fosforo bianco a Fallujah e chi crivellava la gente dagli elicotteri Apache a Baghdad. Quante case, quante moschee, quante cupole d’oro ha perduto la capitale incantata e quanti civili iracheni sono esplosi come i carabinieri di Nassirya? “Danni collaterali” li chiamano i comandi, e se non vestono la divisa non si espone neppure la bandiera. E’ anche per questo che il 12 novembre deve senz’altro essere un giorno di lutto per la nazione e un monito per le Forze Armate e la politica che le comanda. Spostando lo sguardo dagli Orizzonti di gloria, peraltro altrui, all’accantonato articolo undici della Costituzione.

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