Un gruppo di persone insegue alcuni ragazzi per strada: rissa e tre accoltellati.
Un gruppo di tifosi insegue alcuni tifosi di una squadra rivale e ne accoltella tre.
Un gruppo di ultrà insegue alcuni turisti e ne accoltella tre.
Un gruppo di tifosi napoletani coinvolto in una rissa con i tifosi svedesi: tre accoltellati.
Ultrà del Napoli protagonisti di un agguato contro i supporters svedesi: tre feriti.
Una notizia, cinque modi diversi di declinarla. Ma soprattutto: una notizia, cinque reazioni diverse, cinque stati d'animo differenti. Dall'indignazione a comando allo stupore, dal "riduzionismo" al complottismo, dalla vergogna all'indifferenza. Certo, nessuno pretende che sia semplice argomentare su una questione del genere. Nessuno pretendere di avere risposte esaustive ed onnicomprensive. Nessuno intende imporre un pensiero univoco. Ma non è accettabile nemmeno la negazione tout court dei "fatti" e della logica degli eventi.
C'è una città ferita, per l'ennesima volta. E quella città è Napoli. Ed è un fatto. C'è un episodio indubbiamente legato al mondo del pallone e del tifo organizzato, non fosse altro per il risalto che gli stessi aggressori danno alla loro "appartenenza" (ormai assurta a vera e propria categoria sociale o culturale, nella loro logica insensata). Ed è un fatto. C'è una triste ricorrenza di modalità, luoghi e "contesti". Ed è un fatto.
Slegare un aspetto dall'altro sarebbe un errore. Non ha alcun senso dire: "Accade anche in altre città" oppure "ci sono tanti tifosi onesti e leali". E ci mancherebbe altro. Ma simili considerazioni hanno lo stesso valore di "mangiare è bello" e "il sole è caldo". E che non esista la variante antropologica "tifoso napoletano violento ignorante" è cosa troppo ovvia finanche da meritare considerazione. Però da qui a non voler guardare in faccia la realtà…
La realtà è che il tifo organizzato è uno dei grandi problemi del calcio. E che per troppo tempo si è scelto consapevolmente di tollerare, tutelare e foraggiare un universo parallelo dove coesistono violenza ed illegalità, connivenze con la criminalità organizzata e parassitarismo (con la complicità di troppi dirigenti), politica ed interesse. La realtà è che dietro la maschera del supporto al proprio club non c'è solo la passione spontanea dei tifosi, che anzi spesso finisce con l'essere mortificata dalla "sovrastruttura organizzata". Un coacervo che genera tensioni ed esasperazione, che divide anziché unire, che svilisce il senso ultimo di uno sport che invece è e resta metafora della vita sotto tantissimi aspetti. Un insieme che non ha nulla a che fare con l'essenza del calcio, quello "visto con gli occhi di un bambino":
Con gli occhi di chi riesce a trovare bellissimo lo sventolare delle bandiere prima della gara, di chi esulta e si emoziona per un gol e si rattrista per una sconfitta. Di chi confina idoli e modelli in un preciso arco temporale e, per così dire, mentale. Ma di chi sa, anche inconsapevolmente, che oltre quel rettangolo verde c'è tutto un mondo, che sotto il colore delle maglie ci sono gli stessi sogni, le stesse speranze, le stesse aspirazioni. Con gli occhi di chi ancora riesce a fregarsene delle dichiarazioni pre – partita e delle polemiche sui rigori; di chi proprio non capisce che senso abbia fischiare un inno nazionale; di chi non meriterebbe di essere deluso dagli incontentabili del profitto.
La realtà è che questa città è incapace di fare i conti con se stessa. Vive una sindrome da accerchiamento che, se per tanti aspetti è un modo per difendersi da pregiudizi e strumentalizzazioni, dall'altro impedisce di discernere i fatti dalla propaganda. Una città che si rifugia in quel "ma anche" che finisce spesso con l'essere una giustificazione a posteriori per qualunque assurdità. Una città in cui troppo spesso si confonde il malcostume con la tradizione, l'illegalità con il disagio sociale, lo strappo alla regola con la prassi quotidiana. Una città in cui si chiamano in causa secoli di storia per giustificare ruberie e malcostume, in cui si stravolge continuamente finanche il senso delle parole solo in nome di una presunta "straordinarietà". Una città che non vuole rassegnarsi alla normalità ed è pronta ad inchinarsi al primo pifferaio di turno, al primo arrogante capace di far sognare "scudetti e successi" e che per questo, paradosso fra i paradossi, può anche permettersi di insultare a caso, di urlare al mondo che "a Napoli non funziona un cazzo". Una città incapace di "capire" chi siano i suoi veri nemici. Ed è questo il suo limite maggiore.