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Musica neomelodica censurata: un fake per inesperti

Un giornale satirico ha pubblicato una falsa notizia in cui si comunica che a Verona la diffusione delle canzoni neomelodiche è stata proibita nei condomini e chi l’ascolta rischia di essere multato. Una bufala grottesca o un sotterraneo intento censorio nei confronti del genere musicale napoletano?
A cura di Marcello Ravveduto
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In un recente libro si propone la seguente tesi: le canzoni dialettali (calabrese e napoletana) a contenuto criminale non hanno nessuna influenza negativa sulla società. Al massimo alimentano un immaginario collettivo in cui si condensano stereotipi e luoghi comuni. Per suffragare la sua teoria l’autore cita una frase di Frank Zappa: “Ci sono più canzoni d’amore che su qualsiasi altro argomento: se le canzoni potessero farti fare qualcosa, allora ci ameremmo tutti”.

Da un etnomusicologo, che insegna in un’importante università inglese, ci si sarebbe aspettato qualcosa di più sostanzioso di un pamphlet compilativo in cui si accusano giornalisti e studiosi italiani di eccitare panico morale e classismo neo-plebeo contro gli autori, gli interpreti e gli ascoltatori delle musiche a sfondo criminale.

Si tratterebbe, dal suo punto di vista, di una presa di posizione dell’intellighenzia locale che, agitando la “retorica del danno all’immagine”, determina un allarme sociale assente nella realtà. Provando a dimostrare la fondatezza delle sue asserzioni, il ricercatore in questione ha postato sul suo profilo Facebook la sentenza di un Giudice di Pace che ha multato un napoletano, residente a Verona, per aver disturbato i condomini con la diffusione di musica neomelodica ad alto volume (la canzone implicata è “A mé me piace a Nutella”). Inoltre, il dispositivo prevede il divieto di diffusione pubblica di canzoni simili perché prive di spessore artistico e inneggianti situazioni, temi e personaggi della criminalità organizzata.

Sembra proprio che l’etnomusicologo abbia colto nel segno individuando nella rete l’emergere del teorizzato panico morale. Purtroppo, per lui, è incappato in una bufala montata da un giornale on line che nel disclaimer dichiara esplicitamente l’intento satirico dei propri articoli, in molti casi del tutto inventati.

Può capitare a tutti di sbagliare, ma l’aver pubblicizzato una notizia falsa per sostenere le proprie speculazioni è quanto meno scorretto.

Ciò che mi preoccupa è il pensiero retrostante alla pubblicazione del fake: comprovare a tutti i costi la bontà di una tesi senza controllare l’autenticità della documentazione consultata. Dal punto di vista scientifico è un errore marchiano, dal punto di vista comunicativo è una furberia poco gradevole. Ricorda un po’ l’atteggiamento di quei politici fanfaroni che prendono impegni solenni sapendo di non poterli mantenere.

Per andare al sodo: la falsa notizia serve a sottolineare l’esistenza in Italia di un fantomatico partito della censura, ovvero una specie di Ku Klux Klan che trama alle spalle di artisti calabresi e napoletani (interpreti di canzoni di malavita) per zittirli sulla base di uno strisciante razzismo culturale.

In Italia e in Europa non è mai accaduto che brani a contenuto criminale siano stati censurati. Piuttosto questo argomento riguarda il Messico dove è stata vietata la diffusione dei narcocorridos e gli Stati Uniti dove, da alcuni anni, si svolge un dibattito molto accesso sulla possibilità/necessità di censurare il gangsta rap.

Solo un caso ha richiamato l’attenzione della magistratura: la canzone ‘O capoclan interpretata da Aniello Imperato (alias Nello Liberti).

Pare che, sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, nel 2004 Vincenzo Oliviero, reggente del clan Birra – Iacomino a Ercolano (Na), abbia commissionato una canzone per esaltare il sodalizio criminale vincente nei confronti degli storici avversari del clan Ascione – Papale. Il brano non sarebbe, quindi, indirizzato ad un pubblico astratto ma si rivolgerebbe concretamente alla popolazione della cittadina vesuviana per manifestare le stimmate del potere.

Sarebbe, secondo i magistrati, un inno camorrista che ribadisce essenzialmente due regole: il rispetto dell’omertà e l’implacabile punizione di nemici e traditori. A riprova della tesi accusatoria, i giudici usano come prova documentale il video musicale nel quale appaiono personaggi e i luoghi legati al clan Birra. Tre dei protagonisti sono parenti di Vincenzo Oliviero: un fratello e due nipoti. Il posto in cui sono state effettuate le riprese rientra nel territorio controllato dal gruppo incriminato. L’auto utilizzata, una Citroen C3, è la stessa che sorveglia gli spostamenti del boss. L’uomo che interpreta il capoclan è sospettato di essere uno spacciatore al soldo dei Birra. Il Fratello dell’Oliviero interpreta il ruolo di messaggero: riceve il pizzino dal capo e consegna la pistola al killer. I due nipoti, invece, interpretano se stessi nel ruolo di guardie del corpo.

Il cantante della hit, all’inizio del 2012, è stato indagato per istigazione a delinquere. L’accusa ha addirittura chiesto la custodia cautelare di Imperato. Il Gip del Tribunale di Napoli, pur giudicando la canzone un’apologia della camorra, ha respinto la richiesta e non ha ravvisato gli estremi dell’istigazione. Il testo, in definitiva, è solo un’esecrabile manifestazione della libertà di pensiero. Come si vede la censura non è scattata perché la magistratura ha rispettato l’art. 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.

Aniello si è immediatamente pentito di aver canto quella canzone, anche se è stato inevitabilmente rinviato a giudizio. A chi piace narrare storie di fantasmi e mostri liberticidi suggerisco di documentarsi prima di scrivere.

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