Moro, cinque cose che non sappiamo del sequestro che ha cambiato l’Italia
Aldo Moro venne rapito la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani a Roma, nel giorno del primo dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti IV. Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Giulio Rivera, Domenico Ricci, in cinque uomini della scorta restarono uccisi nell'agguato. Cinquantacinque giorni , 37mila perquisizioni dopo, il presidente della Democrazia Cristiana fu fatto trovare cadavere nel bagagliaio di una Renault 4, parcheggiata in via Caetani a Roma. Su quel sequestro sappiamo quanto riferito dagli unici testimoni, i brigatisti del commando guidato da Mario Moretti e quanto ricostruito dalla Commissione Moro, eppure sono ancora tanti i dubbi nel caso. Ecco i cinque punti oscuri che negli anni hanno appassionato storici e giornalisti.
La moto fantasma
Il vero grande mistero del caso Moro è la presenza di una misteriosa moto blu il 16 marzo. Quando lo statista venne intercettato e rapito in via Fani, sul posto c'era una Honda di colore blu con in sella due uomini. Uno dei due brandiva un mitra con il quale avrebbe fatto fuoco contro un passante, l'ingegnere Alessandro Marini, testimone del passaggio di quella leggendaria moto, della quale i brigatisti di Moretti hanno sempre negato di sapere nulla. Eppure l'esistenza dei due uomini della Honda blu è testimoniata da una sentenza che condanna i brigatisti per il ferimento di Marini, in concorso con i motociclisti. Se non erano membri del commando rosso, perché quei due uomini erano schierati in via Fani a sostegno e copertura dell'operazione brigatista? Chi altro aveva interesse a supportare il sequestro?
Il boss calabrese
Veniamo quindi al secondo punto: il ruolo della malavita organizzata nel caso Moro. È un pentito di ‘ndrangheta a fare rivelazioni inquietanti sul ruolo della mafia calabrese nei fatti del '78. Saverio Morabito, arrestato in Lombardia nei primi anni ’90, collaboratore di giustizia giudicato ‘attendibile' ha fatto il nome del boss Antonio Nirta come uno degli esecutori materiali del sequestro. Antonio, appartenente alla famiglia Nirta “La maggiore” – secondo Morabito – era l'anello di collegamento tra la ndrangheta e alte figure del mondo economico e politico e con i Servizi Segreti. Un uomo dai lineamenti compatibili con quelli del boss appare in una foto scattata in via Fani, poche minuti dopo la strage.
Le cinque borse del presidente
È Eleonora Moro, la vedova dell'onorevole, a sollevare uno dei temi più dibattuti del caso: quello delle borse del presidente nei verbali dell'interrogatorio:
Mio marito era solito uscire di casa con cinque borse, tra le quali sempre una contenente documenti riservatissimi, chiavi di casa, denaro, occhiali, nonché un'altra borsa contenente medicinali e un misuratore di pressione. Ho potuto accertare che ciò avvenne anche la mattina del 16 marzo 1978. A me sono state restituite solo le tre borse contenenti giornali e tesi di laurea che mio marito stava correggendo. Richiesi in restituzione le altre due, ma mi fu detto che quelle non furono repertate perché non trovate. Devo a tale proposito precisare che, quando mi recai sul posto dell'agguato, rilevai che sul pianale posteriore dell'auto, a fianco del posto dove sedeva mio marito, vi era una zona che non risultava macchiata del sangue degli agenti di scorta, corrispondente a quella di due borse affiancate.
Perché i brigatisti hanno ‘scelto' solo due borse? Che fine hanno fatto i ‘documenti riservatissimi' che contenevano?
La seduta spiritica
Negli annali della storia è rimasto impresso un episodio che si colloca tra colore e cronaca, con aspetti controversi sui quali ci si interroga ancora. Durante la lunga prigionia del presidente, un gruppo di professori universitari si riunì nella casa di campagna dell'economista, Alberto Clò a Zappolino, a pochi chilometri da Bologna. Tra loro c'erano anche Romano Prodi (con la moglie Flavia) e Mario Baldassarri (oltre al fratello di Clò). La storia narra che, per scacciare la noia di una giornata di pioggia, decisero di praticare una ‘seduta spiritica' e invocare l'aiuto dei morti per ritrovare il presidente. Gli spiriti ‘evocati' erano quelli di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira, ai quali fu chiesto dove si trovasse il nascondiglio dove veniva tenuto ostaggio Moro. Ne uscirono le parole: Bolsena-Viterbo-Gradoli e il numero 96. Sarà proprio il futuro premier Romano Prodi, a rivelare queste informazioni all'ufficio stampa della DC, che a sua volta allertò il Ministero dell'Interno: Gradoli, in provincia di Viterbo, fu passata al setaccio. Dopo il sequestro si scoprirà che uno dei nascondigli delle Br era in via Gradoli a Roma. Un rifugio al quale gli investigatori erano arrivati vicinissimi per la segnalazione di una vicina e che fu scoperto solo dopo che carcerieri e ostaggio erano ormai lontani.
Il finto suicidio di Moro
Il blitz tardivo nel covo di via Gradoli ci porta direttamente al quinto mistero: il finto suicidio di Moro. Lo stesso giorno in cui gli agenti fanno irruzione nel covo romano,comunicato delle Brigate Rosse, il numero 7, annuncia il suicidio di Moro “presso il Lago della Duchessa”.
Oggi 18 aprile 1978, si conclude il periodo "dittatoriale" della DC che per ben trent'anni ha tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data comunichiamo l'avvenuta esecuzione del presidente della DC Aldo Moro, mediante "suicidio". Consentiamo il recupero della salma, fornendo l'esatto luogo ove egli giace. La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa località Cartore (RI) zona confinante tra Abruzzo e Lazio.
E' soltanto l'inizio di una lunga serie di "suicidi": il "suicidio non deve essere soltanto una "prerogativa" del gruppo Baader Meinhof.
Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani e tutti coloro i quali sostengono il regime.
P.S. – Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, ecc. che sono sempre sottoposti a libertà "vigilata".
Sappiamo chi stilò il finto comunicato, si stratta di Antonio Chicchiarelli, esponente di spicco della criminalità romana. Quello che non sappiamo è: perché? Che interesse aveva a depistare le indagini?