La sera del 23 settembre 1983 i telegiornali locali aprono con la notizia di una cruenta rapina a Palermo. Due malviventi col volto coperto hanno fatto irruzione in una sanitaria in via Papa Sergio, si sono fatti consegnare il bottino e poi, prima di dileguarsi nel nulla, hanno sparato a una giovane donna. "Mi ha riconosciuto" ha gridato uno prima di crivellare di colpi la povera ragazza. La vittima si chiama Rosalia Pipitone, ha 25 anni e non è una donna qualsiasi. È la figlia di Nino Pipitone, boss del quartiere Arenella e uomo di Totò Riina, che proprio in quell'anno ha fatto uccidere decine di nemici.
Il delitto
Dopo una morte del genere, nella Palermo dei Corleonesi dove la vita vale meno di una sigaretta, ci si aspetta una reazione spietata contro i due balordi che hanno ucciso Lia e invece, contrariamente a ogni previsione, non succede niente. Nessun parossismo vendicativo, nessuna strage, nessun segnale. Anzi. Lia viene seppellita in fretta e in silenzio mentre la sua famiglia viene flagellata da un altro lutto. Si tratta di Simone Di Trapani, lontano cugino di Rosalia e negli ultimi tempi della separazione dal marito, suo amico e confidente. Il povero Simone muore lanciandosi dal quarto piano, il giorno seguente alla rapina in via Papa Sergio, lasciando un biglietto: "Mi uccido per amore".
La figlia ‘ribelle'
No, la morte di Lia non torna e gli investigatori lo capiscono immediatamente. All'Arenella c'è chi mormora che la ragazza sia stata ‘punita'. Lia, infatti, non aveva mai voluto sottostare alla autorità del padre e giovanissima aveva fatto la fuitina con il compagno di scuola, Gero. Infuriato, suo padre aveva mandato due sgherri a cercarla per costringerla a tornare a Palermo, dove doveva stare. Pochi mesi dopo era nato il piccolo Alessio, ma Rosalia non era mai stata una mamma convenzionale: la vita della casalinga la annoiava, usciva da sola, non si curava delle dicerie del quartiere, dove bastava alzare appena lo sguardo per essere additata come una poco di buono. Il suo rapporto con il cugino, Simone Di Trapani, poi, diventa oggetto di critiche e maldicenze, tanto che quando lei decide di lasciare il marito si dà la colpa al Trapani. Suo padre le sputa in faccia: "Meglio morta che separata". E infatti non Lia vivrà da separata solo pochi giorni.
Un padre che non perdona
Le voci che vogliono Nino Pipitone mandante dell'esecuzione di sua figlia, con le dichiarazioni di alcuni pentiti si tradurranno presto in un capo di imputazione per omicidio. I collaboratori di giustizia raccontano di quando il boss Nino Madonia, capo del mandamento mafioso in cui ricade l' Acquasanta, decise di punire l'indipendenza di quella donna. Convocò i Galatolo e affidò a Vincenzo, il compito di ucciderla inscenando una rapina. Occorreva il permesso del padre, che non tardò ad arrivare. L'indomani sarebbe toccato a Simone Di Trapani, costretto a lanciarsi nel vuoto dopo aver scritto un finto biglietto suicida.
Gli assassini
Le accuse però non reggono e Nino Pipitone viene assolto. Bisognerà aspettare 29 anni prima che le porte del Tribunale si aprano di nuovo, grazie anche ad Alessio, il figlio di Lia. Sarà lui a raccontare la vera storia dell'omicidio di sua madre insieme al giornalista, Salvo Palazzolo, nel libro ‘Se muoio sopravvivimi'. Tra le pagine del racconto personale di Alessio, anche nuove testimonianze e documenti che si riveleranno preziosi per il processo. Sul banco degli imputati, però, siederanno solo, Vincenzo Galatolo e Antonio Madonia, condannati a 30 anni di reclusione lo scorso luglio. Antonio Pipitone, il padre figlicida, morto tempo prima, non verrà mai punito.