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Liliana Segre e le leggi razziali alla Maturità 2022: di cosa parla “La sola colpa di essere nati”

Il significato e il testo del brano tratto da “La sola colpa di essere nati” di Liliana Segre e Gherardo Colombo uscito alla Maturità 2022 tra le tre tracce della tipologia B (testo argomentativo) della prima prima prova scritta.
A cura di Ida Artiaco
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Liliana Segre
Liliana Segre.
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Una delle tracce di testo argomentativo (tipologia B) della prima prova scritta dell'esame di Maturità 2022 parte dal brano "La sola colpa di essere nati", di Gherardo Colombo e Liliana Segre, con la centro una riflessione sulle leggi razziali.

Come si legge sulla traccia contenuta nel plico inviato questa mattina alle scuole dal Ministero dell'Istruzione, la senatrice, in questo testo, espone alcune sue considerazioni personali che evidenziano il duplice aspetto della discriminazione – istituzionale e relazionale – legata alla emanazione delle “leggi razziali”.

L'obiettivo è quello di far esprimere agli studenti le proprie considerazioni su questa tematica, argomentandole sulla base delle conoscenze apprese nel corso degli studi.

Il significato de "La sola colpa di essere nati"

"La sola colpa di essere nati" è un volume, edito da Garzanti, sviluppato sotto forma di dialogo tra lo scrittore ed ex magistrato Gherardo Colombo e la senatrice a vita Liliana Segre, instancabile testimone della Shoah.

Si tratta di una riflessione sull'odio all'interno della società e sul ruolo della legge di natura di contro alla legge dello Stato.

Il testo del brano uscito alla Maturità 2022

"Quando, per effetto delle leggi razziali, fui espulsa dalla scuola statale di via Ruffini, i miei pensarono di iscrivermi a
una scuola ebraica non sapendo più da che parte voltarsi. Alla fine decisero di mandarmi a una scuola cattolica, quella
delle Marcelline di piazza Tommaseo, dove mi sono trovata molto bene, perché le suore erano premurose e accudenti.
Una volta sfollati a Inverigo, invece, studiavo con una signora che veniva a darmi lezioni a casa.

L’espulsione la trovai innanzitutto una cosa assurda, oltre che di una gravità enorme! Immaginate un bambino che non
ha fatto niente, uno studente qualunque, mediocre come me, nel senso che non ero né brava né incapace; ero
semplicemente una bambina che andava a scuola molto volentieri perché mi piaceva stare in compagnia, proprio come
mi piace adesso. E da un giorno all’altro ti dicono: «Sei stata espulsa!». È qualcosa che ti resta dentro per sempre.

«Perché?» domandavo, e nessuno mi sapeva dare una risposta. Ai miei «Perché?» la famiglia scoppiava a piangere, chi
si soffiava il naso, chi faceva finta di dover uscire dalla stanza. Insomma, non si affrontava l’argomento, lo si evitava. E
io mi caricavo di sensi di colpa e di domande: «Ma cosa avrò fatto di male per non poter più andare a scuola? Qual è la
mia colpa?». Non me ne capacitavo, non riuscivo a trovare una spiegazione, per quanto illogica, all’esclusione.

Sta di fatto che a un tratto mi sono ritrovata in un mondo in cui non potevo andare a scuola, e in cui contemporaneamente
succedeva che i poliziotti cominciassero a presentarsi e a entrare in casa mia con un atteggiamento per nulla gentile. E
anche per questo non riuscivo a trovare una ragione.

Insieme all’espulsione da scuola, ricordo l’improvviso silenzio del telefono. Anche quello è da considerare molto grave.
Io avevo una passione per il telefono, passione che non ho mai perduto. Non appena squillava correvo nel lungo
corridoio dalla mia camera di allora per andare a rispondere. A un tratto ha smesso di suonare.

E quando lo faceva, se non erano le rare voci di parenti o amici con cui conservavamo una certa intimità, ho addirittura incominciato a sentire che dall’altro capo del filo mi venivano indirizzate minacce: «Muori!», «Perché non muori?», «Vattene!» mi dicevano. Erano telefonate anonime, naturalmente. Dopo tre o quattro volte, ho riferito la cosa a mio papà: «Al telefono qualcuno mi ha detto “Muori!”». Da allora mi venne proibito di rispondere. Quelli che ci rimasero vicini furono davvero pochissimi.

Da allora riservo sempre grande considerazione agli amici veri, a quelli che in disgrazia non ti abbandonano.
Perché i veri amici sono quelli che ti restano accanto nelle difficoltà, non gli altri che magari ti hanno riempito di regali
e di lodi, ma che in effetti hanno approfittato della tua ospitalità. C’erano quelli che prima delle leggi razziali mi
dicevano: «Più bella di te non c’è nessuno!».

Poi, dopo la guerra, li rincontravo e mi dicevano: «Ma dove sei finita? Che fine hai fatto? Perché non ti sei fatta più sentire?». Se uno è sulla cresta dell’onda, di amici ne ha quanti ne vuole. Quando invece le cose vanno male le persone non ti guardano più. Perché certo, fa male alzare la cornetta del telefono e sentirsi dire «Muori!» da un anonimo. Ma quanto è doloroso scoprire a mano a mano tutti quelli che, anche senza nascondersi, non ti vedono più. È proprio come in quel terribile gioco tra bambini, in cui si decide, senza dirglielo, che uno di loro è invisibile.

L’ho sempre trovato uno dei giochi più crudeli. Di solito lo si fa con il bambino più piccolo: il gruppo decide che non lo vede più, e lui inizia a piangere gridando: «Ma io sono qui!». Ecco, è quello che è successo a noi, ciascuno di noi era il bambino invisibile".

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