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Covid 19

Maria Cristina, infermiera a Milano: “Le mie lunghe notti con i malati di Coronavirus”

La testimonianza di Maria Cristina Settembrese, infermiera infettivologa da 11 anni impegnata all’ospedale San Paolo di Milano, nei giorni dell’emergenza Coronavirus: “Abbiamo mandato in rianimazione un 42enne. Mentre gli stringevo la mano, lui mi ha implorata: ‘Ditemi che mi sveglio, ho due bambine a casa’. La mia mascherina si è riempita di lacrime”.
A cura di Ida Artiaco
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(Archivio Lapresse).
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Tra le tante testimonianze che arrivano dagli ospedali italiani nei giorni dell'emergenza Coronavirus, c'è quella di Maria Cristina Settembrese. Da 11 anni infermiera infettivologa dell'ospedale San Paolo di Milano, il cui reparto di rianimazione sta ospitando prevalentemente pazienti Covid-19, come testimoniato anche dalle telecamere di Fanpage.it, ha raccontato il suo turno di notte in terapia subintensiva. Qui, tutti e 15 i letti disponibili sono occupati da contagiati dal nuovo virus. I più giovani hanno 48, 50 e 61 anni. "Non ho mai sentito nulla del genere in 30 anni di professione", ha detto la 53enne.

"Alle cinque e mezza del mattino – ha detto all'Agi -, quando gli animi si erano calmati e tutti dormivano, ho sentito come l'allarme di una bomba e ho visto una luce rossa che lampeggiava. Siamo corsi tutti a cercare di capire cosa fosse successo. Abbiamo acceso le luci e ci siamo accorti che eravamo in riserva di ossigeno. Tra noi, la rianimazione e altri due reparti dedicati al Covid si era consumato quasi tutto l'ossigeno dell'ospedale. Avevamo un'ora di autonomia. Mentre il medico di turno ci invitava a stare tranquille, io e le mie colleghe ci siamo guardate e abbiamo pensato chi rianimare per primo, nel caso. Per fortuna il rimedio c'era. Abbiamo chiamato l'ufficio tecnico e, nel giro di mezz'ora, sono arrivate due squadre. Hanno messo l'ossigeno nel pilone davanti all'ospedale che mi sono sempre chiesta a cosa servisse. I pazienti non si resi conto quasi di nulla, il casco che hanno in testa fa un rumore devastante per loro e anche per noi. E poi suona sempre e quando suona dobbiamo correre".

Il suo lo definisce il reparto purgatorio, tra quello della rianimazione, al piano di sopra, e quello sotto, riservato a coloro i quali hanno una prognosi più favorevole e vanno verso la dimissione. "Qualche giorno fa – ha ricordato ancora – abbiamo mandato in rianimazione un 42enne. Mentre gli stringevo la mano, lui mi ha implorata: ‘Ditemi che mi sveglio, ho due bambine a casa'. La mia mascherina si è riempita di lacrime. Nella mia vita da infermiera, ho pianto una volta a 18 anni e qualche volta quando sono mancati pazienti di lungo corso, a cui mi ero affezionata. Ora invece si piange tutti i giorni, soprattutto quando devi scrivere tre lettere: NCR. Non candidato alla rianimazione". Da quando c'è l'emergenza Coronavirus le notti in ospedale sono diventate più lunghe. "Io e le mie colleghe siamo una squadra e facciamo staffetta – ha sottolineato -. Una sta dentro e le altre due fuori, tutte bardate per proteggerci quando entriamo e poi quando usciamo ci si spoglia, è un continuo vestirci e spogliarci. Nelle stanze in isolamento non deve entrare nulla. Chi è dentro passa a chi è fuori le cose che sono infette, dalla flebo al bicchiere d'acqua. Non mangiamo, non dormiamo. Prendiamo integratori per tenerci su".

Maria Cristina ha tre sogni. "Avere più presidi per proteggerci in reparto e l'aiuto di altri colleghi, siamo al limite delle forze. Avere uno stipendio più alto per chi fa la mia professione, che ora ci sentiamo umiliate per quello che prendiamo rispetto alle nostre responsabilità. E, quando sarà  finito tutto, andare a Marsa Alam e davanti al mare dimenticare tutto". Ciò che però è certa di non poter mai dimenticare sarà lo sguardo dei malati: "E' l'unico modo per comunicare tra noi col volto coperto e loro sotto il casco. E riusciamo a dirci tutto. Quando vanno in crisi, gli tocco le gambe, perchè il resto del corpo è pieno di fili".

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