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Madri in carcere, la storia di Anna e il piccolo Leonardo: “In due in una cella a immaginare la libertà”

Cosa vuol dire essere recluse con il proprio figlio lo racconta a Fanpage.it Anna (nome di fantasia), ex detenuta nell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri di Torino: “Con me il primo giorno Leonardo, un borsone e 50 euro in tasca”.
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Foto d'archivio
Foto d'archivio

"Mi chiamo Anna, ho 37 anni e sono mamma di quattro bimbi. Il 9 agosto 2017 sono stata arrestata e ho trascorso un anno e dieci giorni all'interno dell'Icam di Torino (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) con mio figlio Leonardo".

Quando Anna (nome di fantasia) risponde alla videochiamata per farsi intervistare, la prima cosa che salta alla vista sono i suoi grandi occhi azzurri. Una giovane mamma torinese ed ex detenuta che ha deciso di rilasciare a Fanpage.it una preziosa testimonianza su cosa voglia dire vivere recluse con i propri figli.

Oggi Leonardo ha 10 anni e ricorda come se fosse ieri gli interminabili pomeriggi trascorsi sotto il sole a chiedersi perché. Perché a differenza di tutti gli altri piccoli della sua età, fosse rinchiuso in una struttura carceraria che faticava a riconoscere come casa sua. E dove fossero i fratelli con i quali fino a qualche giorno prima aveva condiviso giochi e sorrisi.

Anna, partiamo da quel 9 agosto

Ero al lavoro. Avevo 29 anni ed ero madre di tre bambini. Giulia di 10, Luca 7 e Leonardo appena 3. Quel periodo era già molto complicato, stavo scontando una condanna agli arresti domiciliari con affidamento in prova. Anni prima ero stata coinvolta in una rapina con il mio ex compagno e padre dei miei primi due figli.

Ricordo lo squillo del cellulare: "Pronto Anna, sei a casa? La polizia deve venire a controllarti e ha da notificarti una cosa". Tremavo. In quel periodo soffrivo di depressione e la telefonata mi causò forte agitazione.

Mi spiegarono che il giudice aveva sostituito la mia misura cautelare con la custodia cautelare in carcere al Lorusso e Cutugno. Il movente era una discussione violenta avuta con un'amica, nel corso della quale finii per picchiarla. Quella denuncia mi è costata la libertà.

Non me l'aspettavo, all'inizio è stata una tragedia. Mi feci forza e decisi di affrontare l'ennesima prova. Mi organizzai con i bambini in pochissimo tempo, i più grandi partirono per le vacanze estive dai nonni, mentre Leonardo era troppo piccolo, non potevo staccarmi da lui.

Cosa ricordi del giorno del tuo ingresso in carcere?

Un borsone con pochi vestiti, 50 euro nella tasca e accanto a me Leonardo spaesato.

A cosa pensavi in quel momento?

Ero spaventata. Sentivo di aver preso una decisione egoistica nei confronti di mio figlio. Non ho pensato alle conseguenze, volevo solo che fosse con me. Ripensandoci ora, in parte me ne pento.

Perché?

Oggi mio figlio è un bambino sereno ma l'esperienza che ha vissuto credo lo abbia segnato per sempre. Anche se era molto piccolo ricorda tutto. Luoghi, persone, conversazioni. È quando pensi a questo che ti assalgono i sensi di colpa.

È recente la storia che riguarda un bambino che vive nel carcere di Rebibbia. A quasi 3 anni non parla. Le uniche parole che riesce a dire sono ‘Apri' e ‘Chiudi'. Cosa hai pensato quando hai letto questa notizia?

I bambini a quell'età assorbono qualsiasi cosa. Imitano tutto quello che vedono fare e dire dalle loro mamme e nell'ambiente circostante. Si abituano ad una vita che non corrisponde alla realtà. Come potrebbe essere diversamente?

Leonardo capiva tutte le dinamiche. Quell'anno l'ha vissuto molto intensamente. Ricordo che mi chiedeva sempre: ‘Mamma andiamo al bar a comprare le patatine?' oppure ‘Usciamo all'aria aperta?'. Un bambino a 3 anni vuole giocare, correre, scoprire…

Invece è costretto a sentire il rumore dei mazzi di chiavi, a guardare fuori attraverso le sbarre del balconcino di una stanza. Ad accontentarsi di pochi minuti nel cortile, magari sotto il sole cocente.

Cosa gli dirai quando ti chiederà di raccontargli di quel periodo?

Ci penso spesso. Ma la risposta è semplice: la verità. Gli racconterò che quella è stata la nostra storia, la nostra vita. In due in una cella a immaginare la libertà.

Com'erano i rapporti con le altre detenute?

Il primo mese è stato terribile. Leonardo e io condividevamo la cella con un altra giovane donna che approfittava dei momenti di mia assenza per picchiare mio figlio. Trattava male anche me con offese e minacce.

È stato difficilissimo gestire quella situazione anche perché, come ho già detto, in quel periodo curavo la mia depressione con una serie di farmaci. Un giorno un'assistente e una psicologa mi misero davanti a una scelta davvero tosta: continuare le cure e lasciare che Leonardo tornasse a casa oppure sospendere la terapia e tenerlo con me. Scelsi la seconda.

Una stanza dei giochi per i bambini dell'Icam di Torino
Una stanza dei giochi per i bambini dell'Icam di Torino

E poi?

Chiesi subito una cella singola. Da quel momento qualcosa iniziò a cambiare, sì. Cominciai a lavorare, cucinavo per tutto l'Icam insieme con un'altra ragazza per alcuni mesi, in altri mi occupavo della lavanderia. Leonardo nel frattempo andava al nido accompagnato dalle educatrici.

Quel posto mi ha cambiato la vita e gliene sarò sempre grata. Mi sento di ringraziare la dott.ssa Brigantini, senza di lei non so come sarebbe finita. Nell'Icam ci sono assistenti, educatrici, psicologhe, volontarie, sovrintendenti incredibili, tutte pronte ad aiutarti. Sono le persone che mi hanno dato la vita lì dentro.

Cosa ti ha lasciato quest'esperienza? Oggi che madre ti senti?

Sono stata fortunata, è stata una rinascita. Questo capitolo della mia vita mi ha concesso di diventare una donna e una madre ancora più forte di quanto non lo fossi già. La cosa più bella che ho imparato è stato porsi degli obiettivi. Anche se piccoli.

Ogni volta che ne raggiungevo uno pensavo già a prendermi quello dopo ancora più grande. Ed è questo che cercherò di trasmettere ai miei figli. Ci lavoro ogni giorno.

Oggi sono una madre presente e credo di esserlo stata con tutte le mie forze anche quando ero detenuta. Luca e Giulia, i miei figli più grandi, hanno sofferto molto nonostante li vedessi di tanto in tanto a colloquio. Sto recuperando.

Dove vivete adesso?

Sempre a Torino, nella stessa zona. Mio marito, i miei quattro gioielli (Luce l'ultima arrivata), mia madre e io. Facciamo una vita normale. All'inizio non è stato semplice riabituarsi alla vita di tutti giorni, soprattutto reinserirsi nel mondo del lavoro.

Anche cercare una casa è stato faticoso. Giulia mi chiedeva spesso: ‘Mamma l'hai trovata? Possiamo tornare a vivere tutti insieme?'. Soffrivo nel dirle, ogni volta, che nessuno voleva fittarcela, soprattutto quando gli spiegavo che avevo più figli e un solo stipendio.

Poi succede che inizio a dichiarare di avere un solo figlio e in pochissimo tempo sono riuscita ad ottenere un tetto. Ricordo che quel giorno chiamai Giulia e le dissi: "Domani mattina con Luca venite qui, a questo indirizzo". "Mamma perché?". "Ci incontriamo lì".

Che sensazione hai provato quel giorno?

Pace. "Ce l'ho fatta – mi sono detta – cavolo Anna ci sei riuscita, te lo eri promessa ed eccoci qua". Arrivati giù al portone tirai le chiavi e dissi a Giulia: "Apri".

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