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“Ma lui è maschio!” – Storia del gruppo sociale più discriminato al mondo: le bambine

Un’indagine dimostra che le bambine sono il gruppo sociale più discriminato al mondo, specie in Africa e nei paesi mediorientali. Anche in Italia, però, sopravvivono radicate forme di discriminazione che impediscono alla donne di emanciparsi. E si verificano nella prima infanzia.
A cura di Anna Coluccino
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In un'indagine realizzata da PLAN – associazione italiana con esperienza decennale nel lavoro con bambine e bambini dei paesi più poveri del mondo – viene evidenziata l'attuale condizione delle bambine in sette paesi africani. Uno dei punti focali dell'indagine riguarda il rapporto tra istruzione femminile, occupazione e aumento del PIL nazionale. Leggendo lo studio – che evidenzia la violenza e la miopia di una politica incapace di relazionarsi alle donne come a esseri umani pieni e completi – non ho potuto fare a meno di riflettere su un aspetto della nostra cultura che mi ha sempre dato sui nervi.

Partiamo da una considerazione: in Italia, il dato relativo all'istruzione è di segno opposto a quello registrato nei sette paesi africani analizzati. Le donne che completano il ciclo di studi- e con risultati migliori dei colleghi uomini – sono in numero superiore, eppure a questo non fa seguito un inserimento più agevole e meno discriminato nel mondo del lavoro. E quindi è lecito chiedersi: dov'è che sbagliamo? Se la mancanza di istruzione non è alla base dei problemi discriminatori, allora qual è il problema qui da noi? A ben guardare, c'è un punto nel processo educativo di donne e uomini che non funziona; si tratta di un momento particolare in cui si veicolano – ancora e sempre -. stereotipi idioti e dannosi, utili solo a perpetrare lo schema che vede l'uomo un gradino sopra (al comando) e la donna un gradino sotto (al sostegno). Il punto dolente, la fonte della discriminazione di genere, è collocato nella prima infanzia.

Ora: è evidente che il livello di libertà acquisito dalla bambine italiane è imparagonabile alla condizione delle bambine africane e mediorientali. Nessuno si sognerebbe mai di affermare – senza operare i necessari distinguo – che siamo di fronte alla medesima intensità discriminatoria. In Italia esiste un paritetico accesso allo studio; esistono leggi che dovrebbero garantire l'uguale trattamento sul posto di lavoro; le libertà civili e sessuali sono incredibilmente più avanzate. Ciò nonostante, sarebbe deleterio credere che queste pur importantissime conquiste sociali bastino a dichiarare chiuso il capitolo "discriminazione di genere". Dal punto di vista normativo, l'Italia è (quasi) un paese per donne, il problema – infatti – non sono le leggi, sono le consuetudini. La verità è che, in fondo, questo paese soffre ancora di retaggi culturali tardo feudali che sarebbe ora di sradicare. L'indagine di PLAN evidenzia un dato che non possiamo confinare ai soli paesi in via di sviluppo giacché – a ben guardare – si tratta di una tara che appartiene anche al nostro paese; una ferita che ci ostiniamo a curar male (spesso peggiorando le cose) o a ignorare del tutto in nome di pretesi imperativi biologici che di organico non hanno proprio nulla e di culturale praticamente tutto.

È allora ecco il punto: la discriminazione di genere riguarda la cultura e nient'altro. Affrontare la questione come se ci fossero degli aspetti caratteriali genetici che definiscono i confini della mascolinità e della femminilità è – semplicemente – razzista. E di questo razzismo le bambine italiane ancora soffrono, sebbene in forme – apparentemente – innocue. Nonostante la supposta innocenza di certi schemi educativi, infatti, le assurde ed arbitrarie regole cui bambine e bambini vengono sottoposti finiscono con l'imporre condizionamenti subdoli; condizionamenti che, con l'età adulta, si cristallizzano fino ad impedire psicologicamente alle donne di procedere verso una serena e totale emancipazione da certi stereotipi, e ostacolare psicologicamente gli uomini nel relazionarsi alle donne come ad esseri umani davvero uguali.  Ancora oggi si finisce col tirare su bambine che crescono nella convinzione che essere donna significhi desiderare certe cose e non occuparsi di altre. E allora ecco che diventa davvero ridicolo pensare di poter risolvere, ad esempio, la questione della partecipazione femminile alla vita politica imponendo le quota rosa. Ammesso che possano essere uno strumento utile – e non è questa la sede per discuterne – di cosa parliamo se il numero di donne che si impegna attivamente in politica è effettivamente molto inferiore a quello degli uomini?

Fin dall'infanzia, e ancor di più nell'adolescenza, alle donne viene insegnato che "di certe cose" si occupano gli uomini. Leggendo un testo di educazione tecnica in uso nella maggior parte delle scuole medie inferiori, ad esempio, si apprende che: "i lavori di casa spettano alle donne, anche se – da qualche tempo – questa tradizione è stata messa in discussione". Con un livello educativo di questo genere, com'è possibile – poi – parlare di inclinazione naturale dell'uomo alla politica e del rifiuto naturale delle donne? La divisione dei compiti che vede l'uomo-a-lavoro e la donna-a-casa non ha nulla di naturale. Diverse migliaia di anni fa gli esserei umani si sono serviti di questa utile organizzazione sociale perché motivata dalla maggiore forza dell'uomo, necessaria a rendere più efficace la caccia. Ora quest'abilità ha decisamente perso valore, decadendo in termini di utilità, e sarebbe ora di farsene una ragione, lasciando morire anche l'abitudine culturale ad essa connessa; un'abitudine forzatamente tenuta in vita da uno schema culturale primitivo.

Fin dalla primissima infanzia, ad esempio, le bambine familiarizzano con una frase in particolare; una frase che si sentono ripetere da che sono al mondo ogni volta che si trovano a competere con un essere-umano-dotato-di-pene anziché con un essere-umano-dotato-di-vagina. La frase in questione, in genere, viene sempre offerta in risposta a domande del tipo: perché lui sì e io no? A questo punto, infatti, chiunque sia presente all'alterco – madre, padre, zio, nonna, insegnante, passante casuale – afferma con innocenza: "Ma lui è maschio!".

Il "ma" – avversativo – dice tutto.

È l'alba della discriminazione di genere. Da lì in poi le piccole donne impareranno che alla preparazione dei pasti, alle pulizie di casa, alla cura degli ammalati, all'educazione dei bambini provvedono le femmine; impareranno che ai maschi si parla come a "piccoli uomini" e alle femmine come a delle eterne bambine; impareranno che le femmine ricevono forni giocattolo e finti neonati in regalo, mentre i maschi ottengono videogiochi e piste per automobili o treni giocattolo; impareranno che i maschi sono più liberi di andare e venire, di scegliere e partecipare mentre le donne devono uscire sempre con altre donne (o meglio ancora con qualche fratello, cugino) perché per loro il mondo è "pericoloso". E il dramma è che per quelle bambine che vogliono poter assecondare le loro inclinazioni senza dover aderire a cliché preconfezionati ecco pronta l'etichetta di maschiaccio. Epiteto che testimonia – ancora una volta – la ferma convinzione che esistano "cose da femmina" e cose da maschio", e chi non le rispetta è una sorta di invertito. Grazie a quell'epiteto, le donne che tentano di resistere allo stereotipo vengono additate – per tutta la vita – d'essere un'imitazione dell'uomo e non donne

Quel "ma" segnala ineluttabilmente il nostro destino di quasi uomini. Diventare mezz'uomini, infatti, è tutto quanto la società italiana ci consente di fare. Sono passati diversi secoli da quando la forza fisica era il criterio alla base dell'assegnazione di ruoli nella società. Siamo ben oltre l'evoluzione scimmiesca (almeno all'apparenza) eppure sopravvive – latente – l'idea che la maggiore forza fisica maschile basti a determinare la posizione degli uomini nella piramide sociale. Naturalmente, tante si oppongono allo status quo e tentano di affermare diritti e principi eppure – di fatto – vengono costrette a scalare una piramide che non hanno costruito e a cui non riconoscono alcun valore. Le donne che rivendicavano uno spazio di piena uguaglianza al massimo si vedono offrire la possibilità di diventare aspiranti uomini. I modelli di riferimento non sono mutati, le strutture neanche, l'educazione continua a produrre schemi discriminatori e  se le donne, crescendo, riescono a resistere a tutti i tranelli che il modello dominante acchitta sulla loro strada, possono al massimo intraprendere bussare alle porte di una società progettate e gestite da uomini. Ed qui che possono aspirare al meglio che questa società sa offrire alle donne: diventare mezz'uomini.   Invece di dedicarci alla costruzione di modelli nuovi ed egualitari – magari basati su forme centriche e non piramidali – siamo costrette a competere in un mondo che, quando va bene, ha regole truccate a favore degli uomini e, quando va male, ha regole che avallano un'esplicita e violenta supremazia maschile.

Questa – naturalmente – non è un'arringa anti-maschio né, tanto meno, una tirata pro-femmina. Il razzismo non mi appartiene, né un  senso né nell'altro, ed è per questo che preferisco concludere con alcune delle migliori parole mai spese riguardo il rapporto tra donne e uomini; parole che appartengono a un uomo: Rainer Maria Rilke.

"Un giorno esisterà la fanciulla e la donna, il cui nome non significherà più soltanto un contrapposto al maschile, ma qualcosa per sé, qualcosa per cui non si penserà a completamento e confine, ma solo a vita reale: l'umanità femminile. Questo progresso trasformerà l'esperienza dell'amore, che ora è piena d'errore, la muterà dal fondo, la riplasmerà in una relazione da essere umano a essere umano, non più da maschio a femmina. E questo più umano amore somiglierà a quello che noi faticosamente prepariamo, all'amore che in questo consiste, che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda".

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