Di campanelli d’allarme ce n’erano stati tanti. Campanelli che facevano presagire che a un uomo come Giovanni Padovani non si sopravvive. Si può piangere, disperarsi, supplicare. Tutto inutile. L’unica possibilità resta la denuncia. E infatti Alessandra Matteuzzi aveva denunciato.
Ma la paura, il panico, l’incapacità di realizzare quel che davvero può accadere, gioca a favore dell’assassino. È stato così anche in questo caso. Alessandra, 56 anni, è stata uccisa a colpi di panca e martello lo scorso 23 agosto a Bologna.
Da manuale. Così come da manuale è il dato per il quale chi si macchia di crimini così efferati tende a spartire la responsabilità morale con una voce. Che, durante l’interrogatorio, Padovani ha definito angustia: “Vi chiedo di liberarmi dell’ossessione per Alessandra che tutt’ora mi assale”.
È difficile credere nella “verità liberatoria” dell'omicida. Più facile credere che l’ex calciatore stia tentando di accreditare l’ipotesi dell’infermità o della seminfermità di mente al momento dei fatti. In modo da preparare il terreno ai suoi legali per l’accoglimento della richiesta e la conseguente sottoposizione a perizia psichiatrica. Per carità, scelta legittima e rientrante nell’esercizio del diritto alla difesa.
Tuttavia, questa sarà la più dura partita sul campo che l’ex calciatore dovrà disputare. Perché difficilmente potrà sfuggire dalla contestazione della premeditazione. E di conseguenza dalla comminazione della pena più severa prevista dal nostro ordinamento: ergastolo con tre anni di isolamento diurno.
E ciò non solamente perché, ricorrendo a panca di ferro e martello, ha dato seguito a quello che in gergo tecnico viene chiamato istinto di distruzione. Un istinto del quale, proprio per l’uomo, avevamo già parlato.
Padovani non ha voluto solo uccidere Alessandra. Ha voluto annientarla, distruggerla nella sua bellezza e nella sua persona. Del resto, chi è del mestiere sa che ogni assassino ha un proprio disegno. Una forma precisa da delineare, in grado di procurare sadica soddisfazione e orgoglio.
Le parole spese da Padovani davanti ai Pm Lucia Russo, Domenico Ambrosino e Francesca Rago danno però altre informazioni importanti. Andiamo per gradi.
Tra le scienze forensi ce n’è una incredibilmente utile per valutare un soggetto sotto indagine e ampiamente utilizzata dall’Fbi. Mi riferisco alla psicolinguistica forense, che studia il legame che intercorre tra il comportamento tenuto dalla persona e il suo linguaggio.
Un linguaggio, orale o scritto, in grado di rispecchiare i tratti personologici di chi lo utilizza. Evidenziando così, attraverso le espressioni impiegate, le peculiari risposte disfunzionali a stress e conflitti psicologici.
Torniamo a Padovani. Durante la ricostruzione dei fatti, quest’ultimo ha utilizzato frasi come: “Adesso che ho ben compreso che Alessandra Matteuzzi è morta, riferisco di essere cosciente che il mio gesto è stato gravissimo e ne devo pagare le conseguenze”. E anche parole del calibro di “morbosità reciproche”; “relazioni tossiche”. Parlando addirittura, con riguardo al controllo dei telefoni, di “un’iniziativa reciproca e in ogni caso non continuativa”, e con riferimento alla sottrazione delle password alla fidanzata, di “scelta condivisa”.
Mettendo in campo meccanismi di manipolazioni coscienti. Quale quindi il significato?
Nelle sue parole il conflitto psicologico è lampante. Da un lato, infatti, dice di essersi reso conto della gravità di quanto commesso e invoca aiuto. Dall’altro, però, in maniera torbida, non perde occasione di spartire con la ex le sue responsabilità. Richiamandosi alla condivisione di scelte che, stante le denunce per stalking di Alessandra, condivise proprio non erano.
Nessun pentimento. Nessuna reale sofferenza. Questo trasuda dal verbale dell’interrogatorio del 15 febbraio.
Come Antonio De Marco, l’assassino dei fidanzati Eleonora e Daniele, anche Giovanni Padovani aveva appuntato per mesi tutti i passaggi di quello che poi sarebbe diventato il piano sanguinario. “Ti uccido perché mi hai ucciso moralmente”, scriveva il 2 luglio 2022 nelle note del suo smartphone.
Ma non soltanto. La cronologia web ha restituito agli inquirenti ricerche del calibro “uccide ex a sprangate”, “come stordire una persona con una mazza”, “pena omicidio volontario”. E ancora “stalking e violenza sulle donne quanti anni di reclusione”, “si può usare il cellulare in carcere”, “Stati dove non valgono le leggi italiane”.
Le ricerche rinvenute sui suoi dispositivi, quindi, evidenziano quanto l’uomo abbia ponderato e studiato al dettaglio come confezionare l’omicidio. E al tempo stesso la sua totale mancanza di remore, tentennamenti o ripensamenti di sorta.
Ma forse soprattutto quanto abbia sostenuto razionalmente la decisione di annientare Alessandra, anche prospettando ipotesi alternative come la possibilità di pagare un sicario.
Nella completa consapevolezza che avrebbe dovuto pagarne le conseguenze in termini legali. Nemmeno questo, però, è stato in grado di farlo desistere.