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Cambiamenti climatici

L’Italia è uno dei paesi più vulnerabili alla crisi climatica, ma fa poco o nulla per proteggersi

La devastante alluvione in Emilia Romagna ci dimostra ancora una volta come l’Italia sia tra i paesi europei più vulnerabili alla crisi climatica. Questo è il racconto di come negli ultimi dieci anni abbiamo fatto poco o nulla per proteggerci, una storia di piani lasciati invecchiare nei cassetti e di incapacità a riconoscere l’emergenza climatica.
A cura di Fabio Deotto
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L’Italia è un paese unico nel suo genere, ma è prima di tutto un paese che ama considerarsi eccezionale. Le storie che si concentrano sui primati e le eccezioni italiane, che siano o meno virtuose, tendono a guadagnarsi un posto di riguardo nel cuore di chi le ascolta. È anche per questo che la falsa narrazione secondo cui il nostro paese sarebbe ancora relativamente al riparo dalla crisi climatica fa così presa, ed è anche per questo che facciamo fatica a entrare in una logica di emergenza.

Quella che state per leggere è un’altra storia di eccezionalità italiana, sebbene poco raccontata: è la storia di un paese tra i più fragili ed esposti alle ricadute della crisi climatica, che è anche quello che meno si sta attrezzando ad affrontarle.

Nella notte tra il 2 e il 3 maggio una pioggia incessante si è riversata su buona parte dello stivale italico, e in particolare nella zona dell’Emilia Romagna causando un’alluvione devastante: paesi allagati, treni bloccati, statali chiuse, centinaia di persone sfollate o bloccate a Faenza, Bagnacavallo, Conselice, Castel Bolognese; nel giro di 24 ore il Po si è sollevato di un metro e mezzo, il Lamone e il Montone sono esondati, mettendo migliaia di abitanti a rischio evacuazione. Un territorio antropizzato e indurito dalla siccità non è riuscito ad assorbire quantità significative d’acqua, contribuendo a rendere l’alluvione ancora più distruttiva.

Doveva essere una storia di cementificazione e crisi climatica, eppure la notizia su molte testate è stata subito bollata come “maltempo”. Siccome le storie d’eccezione piacciono abbiamo subito incasellato questo fenomeno tra gli eventi epocali che hanno segnato la storia del Belpaese, almanaccandolo insieme a tanti altri disastri non necessariamente correlati (come l’alluvione del 1954 in Polesine e del 1966 a Firenze), ostacolando così ogni correlazione con eventi invece effettivamente legati come la recente alluvione nelle Marche, la frana di Casamicciola a Ischia di quest’anno e, sì, anche l’epocale siccità che ha prosciugato laghi e fiumi negli ultimi mesi.

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La realtà è che quanto è accaduto in Emilia Romagna è l’atteso tassello di un mosaico ampio e stratificato, che comprende le alluvioni come le secche, gli incendi e le ondate di calore; allo stesso tempo, è l’ennesimo segnale dell’emergenza climatica in cui stiamo vivendo, e la dimostrazione di quanto l’Italia sia esposta alle ricadute del riscaldamento globale, e debba quindi proteggersi per gli anni a venire.

Esiste un modo per far fronte a minacce di questo tipo: si chiama Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), e ce l’hanno praticamente tutti i paesi europei. In Italia abbiamo stilato una bozza nel 2018, e una nel 2022, senza mai arrivare a implementarle. A proposito di eccezionalità italica.

Cos’è il PNACC e a cosa serve

Stando a quanto indicato sul sito del Ministero, il piano di adattamento è uno strumento fondamentale per “contenere la vulnerabilità dei sistemi naturali, sociali ed economici agli impatti dei cambiamenti climatici e aumentarne la resilienza.” In parole più semplici, si tratta di un dettagliato database in cui vengono elencate, settore per settore, le azioni di prevenzione e adattamento da realizzare e implementare. Parliamo di 361 interventi specifici in materia di agricoltura, protezione costiera, dissesto idrogeologico, energia, turismo, protezione del patrimonio culturale e praticamente qualsiasi altro settore economico, sociale e amministrativo del nostro paese.

L’obiettivo è ridurre o prevenire gli impatti già esistenti e potenzialmente disastrosi della crisi climatica; impatti che, stando alla stessa bozza di PNACC siglata da questo governo lo scorso dicembre, sono destinati ad aumentare nettamente negli anni a venire: “Il territorio nazionale è notoriamente soggetto ai rischi naturali (fenomeni di dissesto, alluvioni, erosione delle coste, carenza idrica) – si legge nel documento – e già oggi è evidente come l’aumento delle temperature e l’intensificarsi di eventi estremi connessi ai cambiamenti climatici (siccità, ondate di caldo, venti, piogge intense, ecc.) amplifichino tali rischi i cui impatti economici, sociali e ambientali sono destinati ad aumentare nei prossimi decenni”.

Nell’Italia di oggi la stragrande maggioranza dei comuni italiani è già a rischio dissesto idrogeologico (94%), quasi un terzo del territorio è soggetto a desertificazione (28%) e quasi metà dell’acqua potabile trasportata dalle nostre reti idriche finisce dispersa (42%). Tutti valori che la crisi climatica rischia di esacerbare in tempi brevi. A fronte di ciò, la necessità di un piano di adattamento solido e operativo è sempre più urgente.

Il Piano di Penelope

È almeno dal 2012 che in Italia si parla di un piano di adattamento, dopo l’alluvione che a novembre di undici anni fa interessò la provincia di Grosseto creando danni paragonabili a quelli riscontrati nel 1966. Da allora la sua necessità è stata puntualmente invocata all’indomani di ogni tragedia, ma senza che questo portasse alla predisposizione di un iter concreto. Il primo passo significativo è stato fatto nel 2015, con l’approvazione di una Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, di cui il PNACC è lo strumento attuativo. Il secondo passo è stato compiuto con la stesura di una prima bozza di Piano, che ha coinvolto enti di ricerca e amministrazioni pubbliche, e che è stata approntata nel 2018. A quel punto la bozza doveva essere sottoposta a una Valutazione Ambientale Strategica (VAS) e a una Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), ma la questione è stata rimpallata da più ministri, con il risultato che arrivati al 2021 le due valutazioni ancora non erano state completate, complice anche una mancanza di fondi necessari a gestire la mole di lavoro richiesta dalla Commissione e dalla scelta di privilegiare le iniziative di mitigazione (ossia volte alla riduzione delle emissioni) a quelle di adattamento.

Poi lo scorso novembre (dieci anni dopo) qualcosa si è sbloccato: un’alluvione ha provocato un’altra frana a Ischia, una tragedia troppo attesa per essere digerita, e il cantiere è stato riaperto; in meno di un mese l’attuale Ministero dell’Ambiente e la Sicurezza Energetica ha presentato una nuova bozza di PNACC. Da allora l’iter è ripreso in maniera abbastanza spedita, tanto che a febbraio 2023 è stata aperta la fase di consultazione pubblica che ha coinvolto cittadini, enti pubblici e privati nella valutazione del testo presentato. Calendario alla mano, ci sono tutti i presupposti perché il PNACC venga approvato entro la fine di quest’anno.

Ma paradossalmente, anche un’approvazione spedita potrebbe non essere sufficiente, soprattutto se il PNACC verrà approvato e implementato nella forma attuale.

Un piano per il futuro che guarda al passato

La bozza più recente del PNACC è un dettagliato documento lungo 104 pagine, e la prima cosa che balza all’occhio, confrontandolo con la bozza del 2018, è che sia tre volte più corto. Questo in parte perché sono stati eliminati riferimenti scientifici ormai datati, spesso senza sostituirli con dati aggiornati. Il che è un problema non da poco, se consideriamo che l’analisi del clima italiano nel piano del 2018 faceva riferimento al periodo 1981-2010, ignorando dunque i dati dell’ultimo rapporto IPCC, e in sostanza l’ultimo decennio, ossia quello in cui gli effetti della crisi climatica sono diventati più visibili.

Ma c’è di peggio: il nuovo documento presenta in termini meno stringenti, tanto che molte delle misure che nel vecchio piano avevano come data prevista di implementazione il 2020, ora vengono presentate senza una scadenza chiara.

Questo non significa che il Piano, anche nella sua versione attuale, non serva. Anzi: le misure previste, ragionevolmente divise in misure soft (ossia interventi giuridici, sociali, gestionali e finanziari che consentano una monitorazione intersettoriale delle ricadute del riscaldamento globale), misure verdi (volte a favorire lo sfruttamento di soluzioni naturali e servizi ecosistemici) e misure infrastrutturali (ossia interventi fisici e tecnologici volti a proteggere territori, edifici e insediamenti urbani), sono già urgenti. È però fondamentale che si intervenga in maniera organica per compensare le lacune del documento.

A questo proposito, l’Associazione italiana per o sviluppo sostenibile (Asvis), ha prodotto un importante documento in cui vengono raccolti gli interventi correttivi necessari: dalla necessità di rafforzare gli strumenti di governance, a partire dall’Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici, alla necessità di un atto normativo che prescriva l’effettuazione di test nei vari settori per aggiornare le conoscenze riguardo alle vulnerabilità climatiche e idrogeologiche locali.

Per farlo, però, c’è bisogno di una chiara volontà politica, e c’è bisogno di comprendere che le risorse stanziate oggi per l’adattamento serviranno già nel breve e medio termine a salvare vite umane, raccolti, insediamenti, e in fin dei conti, a risparmiare denaro. Basti pensare che lo stesso PNACC valuta che nei prossimi anni il costo delle alluvioni arriverà probabilmente a superare il miliardo annuo.

Lo scorso 21 novembre, pochi giorni prima che un’alluvione provocasse una frana mortale a Ischia, durante il workshop Protezione civile e coesione territoriale a Roma, l’attuale ministro per la Protezione Civile e le Politiche del Mare Nello Musumeci, si lamentava giustamente dell’eccezionalità italica in fatto di adattamento: “è inconcepibile che l’Italia ancora non abbia un piano per l’adattamento al cambiamento climatico” ha detto “Sono passati sei anni da quando il ministero dell’Ambiente ha avviato la procedura e la redazione del rapporto. Un piano che ha impegnato la comunità scientifica che non mi stanco mai di ringraziare. Ma quel piano non è stato ancora formalmente approvato. E quando lo sarà, sarà già superato. Perché i cambiamenti climatici determinati negli ultimi anni hanno segnato un ritmo così incalzante che, di fatto, gli strumenti di pianificazione, se non vengono aggiornati anno dopo anno rischiano di diventare un atto dovuto, come a dire, ci siamo messi con la coscienza a posto.

Sono passati cinque mesi da allora. Mentre l’Emilia Romagna si rialza e Ischia riavvia la sua macchina turistica, gran parte dei territori italiani sono esposti a rischi climatici sempre più intensi e sempre meno prevedibili. Abbiamo tutte le conoscenze e gli strumenti per evitare nuove tragedie (o ridurne sensibilmente gli impatti), e siamo persino al corrente di come sopperire ai ritardi e alle mancanze. Un governo che dice di voler metter al primo posto la protezione del territorio e del patrimonio italiano, dovrebbe a maggior ragione considerare l’adattamento una priorità. Ma per farlo, dovremmo prima riconoscere che ci troviamo in uno stato di emergenza climatica.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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