La foto ha del surreale, una donna vestita da sposa china su una cattedra scolastica con dei fogli davanti: si tratta di Carmela Santoro, insegnante di matematica dell’istituto Majorana di Martina Franca, costretta a firmare il contratto di assegnazione dell’incarico annuale proprio il giorno del suo matrimonio, pena l’esclusione e dunque la rinuncia al lavoro. “Auguri Carmela, sei già entrata nei nostri cuori” scrive un suo collega su Facebook, raccogliendo tenerezze e congratulazioni, ma anche molti complimenti per lo spirito di sacrificio e il senso del dovere dimostrato. La mia testa associa subito l’immagine a un altro post “virale” visto su un account Instagram con velleità di empowerment femminile: una ragazza in ospedale sta ripassando per l’esame il giorno dopo aver partorito, con una mano tiene il bambino e con l’altra gli appunti. La caption: “Questo è per ricordarci di quanto siamo fantastiche”.
Quello che entrambi i casi viene raccontato come un eroico gesto di abnegazione, un esempio da seguire e da premiare, ai miei occhi risulta improvvisamente cacofonico, grottesco, intriso di una tristezza senza senso. Ormai è chiaro, si è rotto l’incantesimo, il mito del lavoro con cui la generazione dei Millennial cui appartengo è cresciuta fa acqua da tutte le parti. Ci hanno insegnato che con abbastanza impegno si va lontano, che il lavoro prima di tutto, che la realizzazione personale (qualunque cosa significhi, e chissà se se lo sono mai chiesto) passa attraverso quella professionale, che ha senso chiedere “e tu di cosa ti occupi” appena conosci qualcuno.
Non ci hanno però detto che saremmo finiti con lauree e master a lavorare dodici ore al giorno a partita iva in qualche ufficio, spendendo il 75% di quello che guadagniamo nell’affitto di una casa in una città inquinata, lontani dai familiari e senza tempo, energie e soldi per creare una rete affettiva in grado di garantirci felicità e cura. La pandemia ha squarciato l’ultimo velo, ci siamo ritrovati tutti criceti sulla stessa ruota, schiacciati dalla totale consapevolezza dell’impoverimento personale e di una pressione social(e) ormai difficile da manovrare. E al prossimo che ci chiama “bamboccioni” non rispondo di me.