Linda Feki: “Ho abortito perché qui non vedevo le condizioni per avere un figlio”
La storia di Linda Feki e del racconto del suo aborto non può passare inosservata. Musicista molto nota nel suo ambito e riconosciuta a livello europeo, nella giornata delle elezioni recenti ha pubblicato un post in cui ha raccontato l'esperienza avvilente del suo aborto. Una scelta ponderata, che aveva preso con serenità, come racconterà in questa intervista, messa in dubbio dall'incredibile trafila di ostruzionismo, noncuranza e indifferenza che ha trasformato tutto in una autentica odissea.
Dal ginecologo di un ospedale che ha aumentato il numero di settimane della sua gravidanza, per poi subire un'operazione in una seconda struttura pubblica (il Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera Cardarelli, al momento di pubblicazione di questo articolo, l'ha invitata per un incontro di chiarimento) di entità ancora più assurda, visto il trattamento ricevuto. Non è un caso isolato, da tempo dedichiamo spazio ai racconti di donne come Asia, Eleonora e tante altre vittime di situazioni che descrivono un quadro drammatico. "Sono stata operata il 4 marzo – ci racconta Linda – giorno in cui il diritto all'aborto è entrato in costituzione in Francia, una coincidenza che con il senno di poi mi è parsa di un'ironia folle". Cominciamo da qui.
Il racconto che hai deciso di pubblicare ha generato un effetto enorme, forse inaspettato. Cosa ti ha spinta a farlo?
Ho cercato di scrivere questo post in chiave di denuncia, non ho espresso ciò che ho provato emotivamente, mi sono limitata a raccontare i lati più ingiusti della vicenda. Volevo che la mia voce potesse essere quella delle altre donne che come me sono state ostacolate e umiliate per aver deciso di esercitare un proprio diritto. Ho sentito la responsabilità di espormi come donna e come artista, cavalcando quel briciolo di privilegio che ho dal punto di vista della risonanza, per veicolare il messaggio che l’aborto è un diritto e ogni donna ha il diritto di poter scegliere.
La storia colpisce sin dall'incipit: "Tre mesi fa ho abortito". Non ne hai parlato a nessuno in quel periodo?
Al contrario, io ne ho parlato molto e mi è capitato di rispondere a chi mi chiedesse genericamente come stessi che mi era appena successo di abortire. Questo mi ha permesso anche di testare il livello di supporto che mi veniva fornito, visto che non è sempre detto le persone mostrino solidarietà. Mi ha colpito che i ragazzi di una generazione precedente alla mia, massimo 25 anni, abbiano mostrato molta più empatia di quanta abbiano fatto i miei coetanei. Però mi sono resa conto che scrivere quello che mi era successo si è rivelato più doloroso.
Cosa è successo in quei tre mesi di silenzio, quindi?
Ho rimandato per molte settimane, volevo scriverne subito, poi ho deciso di attendere la fine del tutto. Dopo l'operazione ho vissuto una condizione complicata, una sorta di “depressione post partum”, piangevo per cose inspiegabili e per fortuna ho potuto gestire il tutto facendo in psicoterapia da anni e attingendo alle mie risorse personali e creative. Sento che queste risorse però derivano da un privilegio: risorse economiche, per poter chiedere un secondo parere, risorse culturali, sociali. Non tutti hanno la possibilità di andare in psicoterapia, e di affrontare la situazione nella propria lingua madre. Questo è un problema enorme.
Poi la scelta di raccontare tutto.
Ho provato una grande rabbia il sabato del weekend elettorale, guardavo i diversi programmi e mi ha assalito un'ansia che mi ha portata a pensare di doverlo fare. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla, ma andava fatto.
La tua scelta di abortire è sempre stata inamovibile?
Prima di restare incinta escludevo ormai l’idea di diventare madre, nel tempo mi ero convinta di non volere figli. Quello che è successo si è rivelata un’esperienza rivoluzionaria: mi ha dato l’opportunità di riconsiderare completamente la mia prospettiva sulla maternità aprendomi alla possibilità di volerla integrare nella mia vita. È un’esperienza forte, e riesci a percepire la magia anche fisicamente.
Cos'è che ti ha fatto cambiare idea?
Una serie di circostanze personali, in realtà, ma soprattutto non nascondo che ha pesato il paese in cui io vivo e in cui non vedo i valori in cui credo. Per la precarietà del nostro lavoro, io e il mio partner siamo entrambi artisti e non sento che il nostro sia un lavoro riconosciuto a livello formale. Il mio compagno era più propenso a tenerlo, ma dopo esserci confrontati abbiamo deciso che avremmo potuto lavorare per creare le condizioni idonee e allora potevamo riprovarci più in là, forse in un altro paese. Ci fossero state qui e adesso condizioni diverse, sicuramente avremmo potuto fare una scelta differente.
Arriviamo a quello che hai vissuto. Ti ha sorpresa trovarti davanti agli ostacoli o te li aspettavi?
Non me li aspettavo perché ero arrivata a questa decisione in modo sereno e con una bella energia, ero forte e sicura delle profonde considerazioni fatte. La prima visita che ho fatto all'ospedale San Paolo di Napoli, al mattino presto, mi sono trovata davanti a un trattamento incredibile. Non mi hanno chiesto il mio nome, il ginecologo dopo aver portato a 10 il numero delle settimane di gravidanza mi ha chiesto se volessimo tenerlo e questo ha minato le mie certezze in un modo violento e manipolatorio. Per un secondo ho esitato.
Cos'è successo, quindi?
Sono andata via, ma mentre uscivo dall'ospedale non mi sentivo convinta per come ero stata trattata e quindi sono risalita per parlare con il ginecologo che mi aveva visitato. Anche lì non è stata una persona accogliente, mi ha tenuta a parlare sull'uscio della porta. Gli ho chiesto di entrare e quindi si è seduto. Quando gli ho chiesto chiarimenti gli ho confidato di avere una relazione a distanza e lui ha lasciato intendere che forse stessi confondendo il partner. Alla fine mi dice che quel responso sull'ecografia era dato dalla macchina, quindi gli ho chiesto di firmare e mi ha detto che non era la prassi. Gli ho quindi chiesto il nome e me lo ha fornito. Ho saputo da subito che non sarei tornata lì ad abortire.
Quindi hai cambiato strada. Cosa hai fatto?
Sono andata in un'altra struttura pubblica, il Cardarelli e lì mi hanno detto chiaramente che il solo giorno per l'interruzione di gravidanza volontaria era il mercoledì: "Per il resto ci sono solo obiettori”. È assurdo, a pensarci. Non era mercoledì e mi sentivo comunque più tranquilla ad andare lì. Vado prima a fare una visita privata e chiedo al ginecologo se fosse un obiettore. Mi ha risposto: "Se lo fossi non sarebbe di pertinenza perché sono un medico. La visiterò e le darò tutte le informazioni". Mi ha fatto un'ecografia e il suo responso equivaleva ai miei conti. Quindi mi ha inviata al Cardarelli con delle rassicurazioni.
In questa seconda struttura pubblica hai trovato maggiore conforto?
Ho incontrato un'assistente sociale che è stata molto gentile.
Oltre all'assistente sociale, non c'era alcun clima di dialogo nella struttura?
Direi di no, c'era un atteggiamento ostile e una tensione forte. Quando la ginecologa che mi ha visitato mi ha consigliato l’operazione le ho riferito che preferivo accedere all’interruzione di gravidanza con il farmaco. Mi ha comunicato che per legge bisogna attendere una settimana per riflettere sulla scelta e non sarei più rientrata nei tempi. Anche questo mi pareva inverosimile. Non ero informata, e solo dopo ho scoperto che la legge “invita a soprassedere per sette giorni”. Io sono in armonia con la scelta di aver abortito, perché se non ci sono i mezzi per mettere al mondo qualcuno e garantirgli quello che ritengo il necessario, mi sento bene a farlo. Molti momenti, però, sono stati stranianti. Al Cardarelli fanno le visite non solo a donne che vogliono abortire, ma anche a persone che vogliono partorire. Nel primo caso tutte le visite si chiamano "visita ginecologica n.6", mentre per l'interruzione di gravidanza volontaria dicono cose come "A3", dove la A sta per anonimo o per aborto? Non ti danno una classificazione, o se la mettono è indicibile. Questa cosa mi ha colpita.
L'operazione che decidi di fare al Cardarelli si rivela molto complicata, soprattutto perché avviene in modo parziale: non è stato aspirato tutto e quindi devi prendere un farmaco per espellerlo. Come mai?
Il fatto che il medico abbia fatto una aspirazione parziale mi ha lasciato interdetta. Io ho chiesto se ci fossero state complicazioni e per quale motivo dovessi prendere questo farmaco per espellere il tutto, ma lui mi ha risposto spiegandomi fosse un risvolto ordinario.
Dopo l'operazione, che nel tuo post racconti come atroce, spieghi che in base al tuo gruppo sanguigno avresti dovuto ricevere una immunoprofilassi, che però non ti è stata garantita e su cui non ti hanno informata. Come hanno reagito quando sei andata a segnalarlo?
Il giorno dopo l'operazione avevo mal di gola, fortissimo. Essendo io un po' ipocondriaca sono andata in paranoia. Va detto che non esiste un centro operativo di supporto per dare informazioni, o almeno non me l’avevano segnalato, e quindi ho dovuto cercarle da sola, su Google. Dopo un bel po' di ricerche ho capito che in base al mio gruppo sanguigno avrei dovuto ricevere questa iniezione a distanza di ore dall'operazione. La cosa mi ha stressata tantissimo e lì mi sono sentita quasi punita, come se non meritassi un'altra possibilità di fare un figlio. Ho trovato il coraggio di andare al Cardarelli e lì credo si siano resi conto dell'errore, perché hanno cambiato atteggiamento e mi hanno detto che avevo fatto bene ad andare lì e già che mi trovavo, me l'avrebbero fatta subito, come fosse un favore. Prima che me lo iniettassero ho chiesto perché non fossi stata informata prima, ma da lì è iniziato un continuo scaricabarile tra infermiera e chirurgo.
Ho notato che un medico legale si è offerto di assisterti.
Non una sola persona, sono stati in tanti a reagire positivamente al racconto. Molte associazioni mi hanno offerto il loro supporto, e molte donne hanno condiviso con me la loro esperienza. Alcune di queste sono positive (presto condividerò una lista di ospedali con buone recensioni, in cui è possibile accedere all’IVG in modo sereno, sicuro e dignitoso) ma troppe donne hanno vissuto un esperienza simile, e spesso peggiore, della mia. È stata una cosa incredibile che testimonia quanto sia un problema radicato.
Ci sono estremi per una denuncia?
Sto cercando di capire bene quali tutele io abbia.
Devono essere stati momenti molto brutti non solo per te. Il tuo compagno come l'ha vissuta?
È stata molto complicata, ha vissuta una condizione di impotenza difficile da descrivere. Si è sentito spiazzato per le modalità in cui progressivamente si presentavano difficoltà e imprevisti fuori dalla nostra portata. Non gli è stato nemmeno possibile starmi vicino nelle ore più complesse, a cavallo dell'operazione. Avevo freddo, avevo i crampi, e se avessi potuto averlo vicino, sarebbe stato completamente diverso. Mi chiedo come mai non mi abbiano offerto un antidolorifico e per quale motivo il partner, o un caregiver, sia previsto nel parto e non in una circostanza del genere, in cui esercizi di respirazione, i massaggi, la produzione di ossitocina, migliorano le esperienza delle partorienti e potrebbero migliorare anche quelle di chi sta abortendo.
Questa esperienza non ti lascia nulla di positivo?
Posso dire che è stata un'esperienza positiva nella misura in cui, seppure in dolorose condizioni, sono riuscita ad accedere ad un mio diritto e dal punto di vista umano, mi ha portato a fare delle scelte che rinviavo da tempo, ha sbloccato delle cose in me anche dal punto di vista artistico e questo, nella brutta esperienza, è stato un aspetto positivo e spero di avere le risorse per trasformarlo creativamente. Ma il modo in cui è avvenuto mette queste cose in secondo piano.
Quanto alle persone conosciute sul percorso?
L'unica figura che mi ha aiutata è stato l’anestesista in sala operatoria che ha dimostrato professionalità, rispetto e supporto e in quei momenti è stato di grande conforto.
Hai detto che volevi servirti anche della tua visibilità. Non temi che questo tema possa sovrapporsi alla tua identità di musicista?
In realtà no, l'intento era quello di denunciare un ingiustizia. Non mi interessa minimamente se questa cosa mi farà attaccare dalle persone, se può rivelarsi utile e costruttiva ne sono felice. Mi dispiacerebbe se condizionasse qualcuno rispetto alla percezione della mia musica, ma io non faccio musica mainstream. Faccio musica e continuerò a farla, continuerò ad usare i social anche per condividere questa, e questo è tutto. Se sono utile per far risuonare delle cose in cui credo, e che succedono a tanti altri, come in questa vicenda, come essere umano e come artista sento il dovere di farlo.
Tra le reazioni che hai raccolto ci sono stati anche degli attacchi?
Sì, e anche pesanti. Oltre ai messaggi di persone che mi hanno ringraziato per aver parlato di questa cosa che loro hanno potuto raccontare solo alle amiche, mi ha colpito avere ricevuto molti messaggi di donne che mi hanno detto cose orribili, chiedendomi se non mi facessi schifo per avere ucciso mio figlio, che se fosse nato sarebbe meno coglione di me. Questo aspetto mi ha ferito tanto, e forse per questo non leggo subito tutti i messaggi che ricevo in DM.
Cosa vorresti dire a chi si può trovare in una condizione simile alla tua?
Che è importante informarsi. Ho scoperto solo in ritardo che l'iniziativa nata sul mio profilo per ricevere da altre persone esperienze vissute, viene già fatta da pagine come Obiezione Respinta, che si occupa di questo tema ed ha già una mappa che informa sugli obiettori e i varii ospedali sul territorio. Se lo avessi saputo, ne avrei sicuramente usufruito e forse le cose sarebbero andate diversamente