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Lettera di un infermiere (Covid positivo) a Giuseppe Conte: “Non dimentichi chi è solo come me”

A Fanpage la lettera di Antonino, infermiere campano in servizio a Torino, per il premier Giuseppe Conte. “Ho combattuto e ho perso, mi sono ammalato sul lavoro. Da 30 giorni sono chiuso in casa con un tampone positivo, lontano dalla mia famiglia e dalla mia futura moglie. Presidente, non dimentichi chi è solo, lontano e impaurito come me”.
A cura di Redazione
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foto d'archivio
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Egregio Presidente,
ogni giorno seguo con fervore le decisioni che insieme al Governo prende per il bene della nostra Nazione e mi stupisco sempre più della sua caparbietà e della sua umanità. Mi chiamo Antonio Bene, sono un infermiere e con la presente voglio raccontarLe, come farei con un padre, la mia ultima esperienza. Da giusto un anno presto il mio servizio presso l’Azienda Ospedaliera Città della Salute e della Scienza di Torino, sede Molinette, nonostante sia cresciuto, vissuto e formatomi professionalmente nella mia Napoli. Torino mi ha ben accolto, come fa ogni volta con i miei concittadini e con gli abitanti del Sud, dandomi la possibilità di creare un futuro per me e per la mia prossima famiglia. Anche se lontani, infatti, io e la mia fidanzata avevamo deciso di sposarci il prossimo giugno perché sentivamo la necessità di iniziare a “diventare grandi”, e l’avevamo fatto anche ristrutturando una piccola casetta dei miei genitori nel comune di Afragola (Napoli) per risparmiare qualche soldino da “investire” per i miei viaggi da pendolare. Nonostante questa lontananza eravamo contenti lo stesso e non vedevamo l’ora di iniziare una nuova vita insieme. Questa Sua frase mi ha dato tanta forza quando qui al Nord stava prendendo sempre più piede il diffondersi del virus e quando ho ritenuto opportuno restare qui, nonostante i preparativi per la casa e per la cerimonia erano entrati nel vivo, rispettando sia i miei cari, sia i miei colleghi che, alla fatica lavorativa, dovevano associare il timore per i propri affetti. Ho chiesto così alla mia futura sposa di stringere i denti perché sarebbe stato ancora più bello ritrovarci dopo essere stati distanti. Ci siamo dati forza e abbiamo accettato questa prova e l’abbiamo fatto anche quando il mio reparto ha avuto l’ordine di tramutarsi in reparto Covid. Ho avuto un po' di paura e, anche se sono stato tentato di mollare tutto e tornare a casa, ho deciso di affrontare questa battaglia fino in fondo con l’angoscia dell’incertezza del futuro e con la certezza che la data del mio matrimonio era stata purtroppo cancellata.“Siamo in guerra” dicevo sempre ai miei e “non posso mollare proprio adesso!”. Non potevo farlo Presidente, non potevo tirare i remi in barca e così ho deciso di combattere… perdendo. Dopo due settimane di duro lavoro e di turni all’insegna di tute, guanti e mascherine che non ti fanno quasi respirare, ho iniziato a non sentire più nulla.

Nessun odore, nessun sapore, nulla. Conoscevo bene i sintomi di questo virus e sapevo bene che stava toccando proprio a me. Le giuro, mi è crollato il mondo addosso, non perché mi fossi ammalato, ma perché mi sono sentito prigioniero del mio corpo e prigioniero in una città dove le uniche persone che conosco sono i miei colleghi. Sono rimasto da solo, chiuso nel mio monolocale in affitto, da solo con il mio tampone positivo. E lo sono ancora tutt’ora (dopo 30 giorni) senza poter parlare con nessuno, senza nessuno che mi possa portare un po’ di spesa e, se non fosse per i riders di cui non conosco nomi e volti, non so a quest’ora come avrei fatto. Io resto in attesa che il mio tampone si negativizzi e che possa tornare ad essere quello di prima, anche se credo questa situazione mi segnerà per sempre. In questi giorni ho pensato a quanto sia bella la semplicità di avere i propri cari vicino, di quanti sacrifici fa chi per lavoro si allontana dal proprio porto sicuro e di quante paure affliggono chi si ritrova in mezzo ad un mare agitato con solo un giubbotto di salvataggio o una piccola scialuppa. Io mi sento così e penso a quanto sarebbe stato diverso combattere questa Pandemia sapendo di affacciarsi dal balcone e trovare tua mamma o qualcuno che, anche solo per dirti grazie, ti lascia un piatto di pasta fuori alla porta di casa. Devo molto a Torino ma quando penso alla mia terra mi viene da piangere. Non me ne vergogno a dirlo. Lo faccio perché credo che lì al Sud ci sarebbe l’opportunità per tutti di poter restare e credo che Lei sia la persona giusta per recuperare questo ritardo sociale, sperando con questa lettera di averLe fatto vivere con maggiore empatia la tristezza di noi lavoratori fuori sede. Il mio desiderio è quello di tornare al più presto a Napoli in uno dei tanti ospedali pieni di professionisti e di persone che combattono contro malattie del corpo e non solo. So che sarà difficile e che la burocrazia non mi ripagherà di questi mesi terribili, ma sono sicuro che, considerando le carenze croniche di personale sanitario nella Sanità Campana, potrà capire questo mio umile sfogo. Presidente, io continuo a fare il tifo per lei e per il suo lavoro, lei però, non si dimentichi di chi è solo, lontano e impaurito… come lo sono ancora io tutt’oggi.

Con immensa stima".

Antonio Bene

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