Non ho letto nulla sugli stupri dell’estate. Avrei potuto documentarmi, approfondire, affrontare le ricostruzioni dettagliate degli eventi, e provare dolore, rabbia, frustrazione, e ancora dolore, e poi impotenza, e poi paura, e poi disperazione, e furia. Non l’ho fatto.
Ero in ferie, impegnata a costruire castelli di sabbia e raccogliere conchiglie, e non potevo permettermi di avvelenarmi il sangue, perché le cronache delle violenze questo fanno: spezzano il fiato, strappano dentro, bruciano, rompono a pezzi, fanno tremare i polsi. Tali eventi rovinano le giornate, mica una soltanto, diciamo pure tutte, o meglio le vite. Dunque non ho letto e non sono intervenuta.
Un amico però mi ha scritto, ponendomi una domanda precisa, alla quale non riusciva a trovare risposta esaustiva: “È giusto o non è giusto dire alle donne, alle ragazze, alle bambine, di stare attente?”
Hanno forse torto i centri antiviolenza quando suggeriscono alle donne di non accettare mai l’ultimo appuntamento chiarificatore, perché spesso è quello fatale? Stanno facendo victim blaming, o stanno dando un consiglio per portare a casa la pelle?
Ora, è indubbio che il revisionismo di Cappuccetto Rosso, in cui la sprovveduta incontra il lupo nel bosco in quanto sbronza, sia irricevibile; ed è evidente che – come osservato da molti – il commento di Giambruno sia inappropriato e paternalista, ma di questo si è già ampiamente discusso. Ciò che forse non è altrettanto chiaro, tuttavia, è che la transizione dalla cosiddetta cultura dello stupro in cui siamo immersi, alla cosiddetta cultura del consenso in cui meriteremmo di essere persone libere nel senso più rotondo del termine, non è immediata. Non succede dall’oggi al domani. Viviamo e vivremo per decenni ancora in una scala di grigi, di situazioni intermedie, di violenze ulteriori, e di questo è necessario essere consapevoli.
Così come è necessario aver contezza del fatto che abitiamo un mondo culturalmente ostile al femminile; che siamo statisticamente più basse e più leggere di un possibile predatore; che uno dei capisaldi attorno ai quali si coagula il senso della mascolinità è l’antifemminilità. E sì, è ancora così, anche se c’è Fedez che mette lo smalto sulle unghie, o Rosa Chemical che va a Sanremo con la gonna. E bisogna sapere che questo mandato di genere (disprezzare il femminile, ovvero: non comportarsi, non vestirsi, non reagire da femmina, non piangere come una femmina e non giocare con le femmine, perché con le femmine ci devi fare altro, mica divertirti, e comunque solo i gay giocano con le femmine) succede già all’asilo. Oggi. Nell’epoca corrente.
E mentre noi alimentiamo un dibattito che si avvita ancora attorno agli equivoci su cosa sia lo stupro, cosa sia il branco, cosa sia l’attrazione, cosa la prevaricazione, cosa l’abuso, cosa il potere, cosa la violenza, cosa la libertà, cosa la provocazione, cosa il consenso, mi sembra sempre che si buchi la questione centrale. Questione che evidentemente non è dire alle donne quanto bere, come vestire, dove andare, esortandole a vivere sulla difensiva, per esercitare la facoltà di essere prede, impaurite e prudenti.
La vera questione è la responsabilità MASCHILE (responsabilità, non colpa), che riguarda tanti uomini, ma così tanti che possiamo permetterci di dire “tutti”, anche quelli che non hanno mai stuprato nessuno, bontà loro, e che per questo si sentono immuni ai significati, alle norme e alle aberrazioni del proprio genere. Ciechi di fronte all’evidenza che parliamo di una violenza strutturale, sistemica, pervasiva, declinata in sfumature innumerevoli di tinte in ogni caso fosche (non vi tedio con degli esempi for dummies, confido nell’intelligenza di chi legge).
E la domanda principale, in tutto questo, rimane inevasa: che si fa? Cosa facciamo per smetterla di soffrire, di morire, di subire violenza di massa? In discoteca come per strada, sul luogo di lavoro o dentro casa (dobbiamo ancora rammentare dove si consuma la maggior parte delle violenze). Che si fa? Impariamo a menare? Prendiamo il porto d’armi? Andiamo in giro coi rottweiler? Facciamo i quartieri rosa? Promuoviamo la segregazione dei generi? Il coprifuoco? La castrazione chimica come diceva qualcuno? Ci copriamo tutte, come usa in certe culture? Oppure diciamo per l’ennesima volta che un giorno, magari, forse, chissà quando, ci sarà la benedetta educazione sessuo-affettiva nelle scuole? E cosa diamine stiamo aspettando? E le famiglie sono d’accordo? E i docenti? E chi tiene questi corsi? E di cosa si parla? In quali termini? Chi forma gli adulti che devono educare i ragazzi? Ma poi ne hanno bisogno solo i ragazzi?
Questa millenaria violenza per la quale, da sempre, le libertà femminili vengono limitate, esattamente quando la affrontiamo? Che idee hanno in proposito i nostri compagni emancipati che sanno cambiare i pannolini e far funzionare la lavastoviglie? I padri delle nostre figlie che si vergognano accoratamente dei propri simili, ma ve ne prego non indaghiamo su quali contenuti si scambiano nelle chat del calcetto, proprio loro, cosa dicono? A parte affrettarsi a chiarire la loro estraneità a certi fatti, a una data cultura.
Forse avremmo bisogno di rifare i gruppi di autocoscienza, di ritrovarci e parlarne, mettendoci il corpo, la faccia, la voce. Forse avremmo bisogno di portare questi temi nella vita reale, alle cene tra amici, nelle chiacchiere tra colleghi, ai pranzi in famiglia. Forse non esiste un modo per sottrarsi all’apocalisse in atto, a questa irreversibile crisi di senso, alla barbarie globale, all’istupidimento collettivo, al degrado intellettuale, che ci repelle e ci attrae, e ci consente di animare discussioni interminabili che alla fine non scalfiscono di un grammo lo status quo. Che è esattamente ciò che lo status quo desidera, per definizione: conservarsi inalterato.
In quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore, avrebbe detto Battiato.