Non è degna di ricevere un risarcimento perché, scrive la Prefettura di Crotone, “La Signoria vostra non risulta essere del tutto estranea ad ambienti e rapporti delinquenziali”. L'ha saputo così Marisa Garofalo, sorella della testimone di giustizia Lea Garofalo rapita e uccisa nel novembre del 2009 dall'ex compagno (mafioso) Carlo Cosco (nonché padre di Denise, ora testimone di giustizia) che secondo la sentenza del tribunale di Milano avrebbe dovuto ricevere come risarcimento 50.000 euro e che invece oggi si ritrova addirittura "calunniata" (come ci dice lei).
La storia è conosciuta, su Lea Garofalo e sua figlia Denise si è scritto moltissimo, talvolta a sproposito, e addirittura è stata proposta una bella fiction in prima serata ("che non ha reso onore alla storia di mia sorella", puntualizza Marisa): Lea Garofalo fu testimone di giustizia, cresciuta in ambienti mafiosi (il padre e il fratello furono vicini al clan di Petilia Policastro, in Calabria) decise di denunciare l'ex compagno Carlo Cosco e i suoi loschi affari. Con la figlia Denise entrò nel programma protezione testimoni ma non trovò mai un vero appoggio da parte delle istituzioni (scrisse perfino al Presidente della Repubblica, oltre che a alcune associazioni antimafia, senza mai ricevere risposta) finché stremata non decise di uscire dal programma di protezione e incontrare per l'ultima volta il suo ex compagno, padre di sua figlia, per chiedergli i soldi per trasferirsi e "sparire". Quell'incontro, avvenuto a Milano, le fu fatale: Carlo Cosco (insieme al fratello Vito, e a Giuseppe Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino, ex fidanzato di Denise) uccisero Lea dopo averla seviziata e ne bruciarono il cadavere. Nella sentenza si scrisse che per quella morte dovevano essere risarcite Marisa Garofalo, sorella di Lea, e la madre Santina. Ma dopo due anni e mezzo (anche se il tempo limite è fissato in sessanta giorni per legge) ora è arrivato il rifiuto della Prefettura.
«È assurdo – ci dice Marisa Garofalo – noi abbiamo sempre saputo di appartenere a una famiglia che purtroppo aveva contatti con ambienti mafiosi. Per questo il gesto di Lea è ancora più importante e per questo anch'io ho pagato la mia scelta di starle vicino da viva e di ricordarla ora che è morta. È come dire che Peppino Impastato debba portare addosso la macchia di suo padre. Io mi sono costituita parte civile nel processo, sono stata tra i pochi testimoni ritenuti attendibili, a spese mie giro l'Italia per portare avanti la memoria di Lea che dopo il film sembra non esistere più. Solo io continuo a parlarne. Mia sorella ha pagato con la vita, io devo pagare con la dignità? Non è questione di soldi, è una questione di dignità. E io non accetto di essere calunniata».
Il ricorso è già stato presentato, l'udienza è fissata per settembre. Ora non resta che attendere la giustizia.