Le ultime confessioni di Paolo Borsellino alla moglie: “Mio marito non temeva la mafia”
“Era perfettamente consapevole che il suo destino era segnato, tanto da avermi riferito in più circostanze che il suo tempo stava per scadere”: inquietanti le dichiarazioni di Agnese Borsellino, moglie di Paolo, il magistrato ucciso insieme alla sua scorta nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992. Inquietanti non solo perché descrivono le ultime ore di un uomo che sapeva di dover pagare con la sua vita quel lavoro che, con passione, portava avanti ma anche perché sembrano smentire la verità che la storia ci ha consegnato nel corso di questi anni. Una storia tutt’altro che scritta in maniera definita visto che ancora oggi le indagini proseguono.
La paura che qualcosa possa essere andato diversamente da ciò che tutti immaginiamo viene fuori dalle parole della donna che, fino all’ultimo, ha ascoltato i dubbi, i timori e i presagi del magistrato. Le sue dichiarazioni sono contenute in due verbali d’interrogatorio davanti ai pm di Caltanissetta, titolari della nuova inchiesta sulla strage, trasmessi alla Procura di Palermo che indaga sulla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra.
Agnese Borsellino parla delle ultime ore di vita del marito: ore vissute per scoprire quanti più dettagli possibili della strage di Capaci in cui era morto il collega Giovanni Falcone, ore in cui nel magistrato si insinuava sempre più forte il dubbio di una relazione tra la mafia e le istituzioni. La moglie di Paolo Borsellino non ammette di aver ricevuto particolari confidenze dal marito, che mai le riferì di particolari trattative sicuramente anche per non mettere in pericolo la sua incolumità ma – continua – “non posso escludere che egli fosse venuto a conoscenza di una vicenda del genere e non me l’avesse riferita, in quanto era una persona estremamente riservata”.
Borsellino aveva, per la moglie, terribili presagi ed era convinto che a condannarlo a morte non sarebbe stata la mafia: il ricordo di Agnese si riferisce ad una conversazione avuta in confidenza dal marito durante una passeggiata sul lungomare di Carini del 18 luglio 1992, il giorno prima dell’omicidio.
Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo.
Frasi che si aggiungono ad altre confidenze fatte alla moglie qualche tempo prima (Agnese parla della metà di giugno del 1992) quando ricorda che il marito le disse testualmente “che c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. Lo stesso periodo in cui le confidò di aver visto la “mafia in diretta” riferendosi appunto alla contiguità tra Cosa Nostra e pezzi di apparati dello Stato italiano.
Rivelazioni pesanti che, dopo quelle del 2009 di Totò Riina al suo legale (“L’hanno ammazzato loro. Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Io sono stanco di fare il parafulmine d’Italia”), insinuano nuovi dubbi e dimostrano, a quasi vent’anni dalla strage, di trovarci di fronte ad una pagina ancora troppo oscura della storia italiana.