Nell’agosto del 1995, l’allora vice-presidente della Banca Mondiale, Ismail Serageldin, lanciò un ammonimento che avrebbe fatto storia: “Se le guerre di questo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del prossimo secolo verranno combattute per l’acqua; a meno che non cambiamo approccio nel gestire questa risorsa preziosa e vitale.” Come abbiamo visto, a quasi trent’anni di distanza il nostro approccio nella gestione delle risorse idriche è ancora gravemente fallato, almeno metà della popolazione globale vive in regioni afflitte da scarsità idrica e le riserve di acqua dolce si stanno riducendo a ritmo preoccupante. La crisi climatica sta letteralmente prosciugando zone che già da tempo lottano con siccità e riserve idriche scarse, andando a esacerbare quelle condizioni che solitamente innescano conflitti armati.
Per rendersene conto è sufficiente dare un’occhiata alla Water Conflict Chronology stilata nelle ultime settimane dal Pacific Institute, un registro costantemente aggiornato delle situazioni in cui l’acqua è stata al centro di ostilità. Il bilancio è chiaro: negli ultimi vent’anni il numero di conflitti violenti legati all’acqua è cresciuto sempre più rapidamente. Solo negli ultimi due se ne contano 201: si va dai sanguinosi scontri tra contadini e allevatori nei paesi dell’Africa sub-sahariana, alle proteste antigovernative scoppiate in Iran lo scorso anno e violentemente represse, fino ad arrivare, il mese scorso, al bombardamento da parte dell’esercito russo di una diga nel sud dell’Ucraina che bloccava l’afflusso di acqua dal Dniepr in Crimea.
La maggior parte di questi conflitti si concentra in paesi come Yemen, Siria, Iran, Pakistan e India, che guarda caso sono anche i più colpiti da ondate di calore, siccità e altre ricadute della crisi climatica. E se consideriamo che, a giudicare dalle previsioni dell’IPCC, nei prossimi anni la scarsità idrica diventerà un problema per 2/3 degli abitanti di questo pianeta, le parole di Serageldin suonano sempre di più come una profezia.
Sull’acqua ci diamo battaglia dai tempi dei Sumeri
Due anni prima che Serageldin snocciolasse la sua profezia, un economista britannico di nome Richard Auty creò scompiglio nel dibattito sullo sviluppo introducendo il concetto di “Maledizione delle risorse”. Si riferiva a quel paradosso per cui le nazioni che dispongono di maggiori risorse, in particolare petrolio e minerali, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, sono anche quelle caratterizzate da una minore crescita economica e uno scarso sviluppo.
Per quanto provocatoria, la tesi si rivelò tutt’altro che campata per aria. Dal 1993 ad oggi sono stati pubblicati diversi studi che sostanzialmente confermano la tendenza generale individuata da Auty. Del resto non è difficile trovare paesi rappresentativi di questa “maledizione”, basti pensare all’Angola, alla Bolivia, alla Nigeria, o al Venezuela. L’idea di fondo è che un’abbondanza di risorse renda più facile l’emergere di un sistema economico che privilegia le esportazioni a discapito dello sviluppo interno, oltre a favorire gli episodi di corruzione e, naturalmente, l’insorgere di conflitti.
In effetti, se andiamo a guardare il primo conflitto legato a risorse idriche di cui abbiamo memoria, troviamo due città-stato sumere, Lagash e Umma, che tra il 2500 e il 2300 a.C. si diedero battaglia proprio per lo sfruttamento di un’abbondanza idrica. Lagash, per quanto di dimensioni ridotte, era una città più ricca e potente di Umma, anche per via della sua posizione sul fiume Tigri. Il territorio di Umma però includeva il Gharraf, un canale che congiungeva il l’Eufrate con il Tigri e che era di fondamentale importanza per le terre di Lagash. Il fatto che Umma fosse nella posizione di controllare le acque del canale a nord, agli occhi dei sovrani di Lagash, la metteva in una posizione di vantaggio strategico, e diversi storici credono che sia questo il principale motivo della rivalità tra le due città.
Dai tempi dei Sumeri a oggi l’acqua non ha mai smesso di alimentare conflitti, che principalmente scaturiscono da lotte per lo sfruttamento di risorse, controverse territoriali e bracci di ferro per ottenere vantaggi strategici. La maggior parte di questi conflitti è emersa in territori caratterizzati da abbondanza idrica, ha avuto dimensioni circoscritte, e raramente ha assunto proporzioni tali da poter parlare di vere e proprie “guerre dell’acqua”. La situazione però sembra destinata a cambiare.
I conflitti per l’acqua sono destinati ad aumentare
Un gruppo di ricercatori guidato dall’economista ambientale Fabio Farinosi ha calcolato il rischio di insorgenza di conflitti legati all’acqua nelle diverse zone del pianeta. Per farlo ha sfruttato un algoritmo ad apprendimento automatico per ottenere un modello utile a interpretare i conflitti avvenuti in corrispondenza di vari bacini fluviali nel corso della Storia. Basandosi su dati come la densità di popolazione, la disponibilità idrica, le condizioni climatiche e l’equilibrio politico territoriale, i ricercatori hanno a stabilito che, di qui al 2100, nelle aree più a rischio la probabilità di insorgenza di una guerra per l’acqua si assesta tra il 75% e il 95%.
Con “aree più a rischio” si intendono le zone che circondano bacini fluviali come quello del Nilo, del Gange, dell’Indo, del Colorado e del Tigri-Eufrate. Tutti luoghi un tempo noti per la loro abbondanza idrica, e oggi sempre più piagati da una grave scarsità idrica. “Sebbene le problematiche idriche in passato non siano mai state sufficienti a innescare una guerra,” si legge nello studio “le tensioni riguardanti la gestione e l’utilizzo di acqua dolce rappresentano una delle maggiori criticità nelle relazioni politiche tra stati rivieraschi, e potrebbero esacerbare tensioni esistenti, aumentando l’instabilità locale e i disordini sociali.”
L’unico modo che abbiamo per arginare quella che appare come un’inevitabile escalation di tensioni geopolitiche attorno alle risorse idriche, scrivono Farinosi e colleghi, è che le varie nazioni coinvolte mettano in campo tutti gli strumenti di cooperazione utili a prevenire l’insorgere di conflitti. Purtroppo, visti gli ultimi chiari di luna, il mondo sembra puntare in tutt’altra direzione.
Scoppierà una vera e propria guerra per l’acqua?
Mentre in Italia salutiamo l’arrivo della prima pioggia dopo mesi, molti paesi nel Nord Africa e in Medio Oriente convivono ormai da anni con una gravissima scarsità idrica. La situazione è particolarmente drammatica in Iraq, che negli ultimi 50 anni ha visto le risorse idriche diminuire del 40%: colpa della crisi climatica, certo, ma anche di una cattiva gestione delle acque a livello interno, di infrastrutture obsolete e dell’intervento di paesi limitrofi sulle risorse fluviali.
La situazione ha cominciato a precipitare nel giugno del 2019, quando nel bel mezzo di un’ondata di calore di 50 gradi, la Turchia decise di riempire la diga di Ilisu, in corrispondenza di uno dei primi tratti del Tigri. La diga fa parte del Guneydogu Anadolu Projesi (GAP), un mastodontico progetto che prevede la disposizione di quasi 90 dighe e 60 centrali idroelettriche lungo il corso del Tigri e dell’Eufrate. Sono passati più di 4000 anni da quando Lugash e Umma si mossero guerra: il mondo è assai cambiato, la situazione geopolitica si è incredibilmente complicata, ma i fiumi continuano a essere una risorsa strategica e un motivo di contesa. Basti pensare che, appena fu avviato il riempimento della diga di Ilisu, il flusso del Tigri a valle risultò quasi dimezzato, andando a ad aggravare la scarsità idrica in alcune zone di Iraq, Siria e Iran. Nell’agosto del 2019, a Basra la qualità dell’acqua crollò significativamente: lo scarso afflusso di acqua andò a ridurre la diluizione dei contaminanti riversati nel fiume dalle acque di scarico non trattate, e a consentire l’intrusione di acqua salata dal Golfo Persico; centinaia di persone finirono in ospedale in preda a vomito e diarrea.
In altre zone del mondo, situazioni simili stanno già fungendo da incubatore per un futuro conflitto. Pensiamo ad esempio alla Great Ethiopian Renaissance Dam (GERD), una diga da 5 miliardi di dollari sul tratto etiope del Nilo azzurro. La sua costruzione ha subito scatenato le reazioni di Sudan e Egitto, le cui economie dipendono in buona parte dalle acque del fiume. Nel maggio del 2021, Egitto e Sudan hanno avviato una serie di esercitazioni militari congiunte che hanno didascalicamente battezzato “Guardians of the Nile”. Non è difficile intravedere in questo tipo di dinamiche i prodromi di una guerra, ma sulla possibilità che in futuro il mondo sarà stravolto da vere e proprie guerre per l’acqua molti sono scettici.
L’acqua: arma o obiettivo?
Da quando Serageldin ha lanciato la sua profezia, i paragoni tra acqua e petrolio sono diventati un ritornello assordante: oggi, mentre ai confini dell’Europa va in scena una guerra brutale, la locuzione “l’acqua è il nuovo petrolio” ha letteralmente colonizzato le discussioni in rete come sui media. Ma questo paragone regge davvero? Secondo Jeroen Warner e Sumit Vij, due esperti di idropolitica, la risposta è no: “Il cambiamento climatico sta intensificando gli episodi climatici estremi” scrivono su NewSecurityBeat “Ma la violenza è solo una delle possibili risposte agli stress ambientali e ai cambiamenti improvvisi, e persino una delle più rare. Occorre un’interazione complessa di molteplici fattori perché emerga un’escalation capace di condurre a una crisi".
Basta guardare alla storia del mondo, del resto, per rendersi conto che di vere e proprie guerre per l’acqua ce ne sono state poche. Nella stragrande maggioranza dei casi, la cooperazione internazionale ha prevalso. In effetti, i trattati tra India e Pakistan sull’utilizzo delle acque dell’Indo sono sopravvissuti a tre guerre, e sebbene l’India continui a sventolare lo spauracchio di una diga ogni volta che i rapporti con il Pakistan precipitano, alle minacce non è mai seguita alcuna azione concreta.
Questo non significa, dicono Warner e Vij, che l’acqua non avrà peso nei conflitti globali, ma è più probabile che verrà intesa come arma piuttosto che come obiettivo. Che poi è quello che è successo a Tripoli nel 2019, quando un gruppo armato fedele al generale Khalifa Haftar ha preso d’assalto una stazione di pompaggio, tagliando le forniture a 2 milioni di persone; o nel 2021, quando l’Ucraina ha bloccato l’acqua che dal Dniepr fluiva in Crimea. Warner e Vij ritengono inoltre che insistere con i moniti su possibili guerre dell’acqua rischi di trasformarsi in una profezia auto-avverante, poiché dirotta l’attenzione da una narrazione incentrata sulla cooperazione a una incentrata sul conflitto. È una posizione sensata, ma potrebbe rivelarsi un poco miope.
L’epoca meno prevedibile nella Storia umana
Se da un lato è vero che le guerre per l’acqua sono sempre stati eventi eccezionali, è anche vero che gli ultimi decenni si discostano dalla quasi totalità della Storia umana. Per millenni la nostra civiltà ha potuto poggiare su una sorta di equilibrio climatico, che ne ha permesso la crescita, l’espansione e, a conti fatti, la conquista di ogni angolo del pianeta. Ma questa crescita ha comportato un prezzo, in termini di consumo di risorse e di produzione di emissioni, che solo negli ultimi decenni ha cominciato a manifestarsi in modo incontrovertibile. Risultato: il plateau climatico su cui abbiamo eretto la nostra civiltà ormai è compromesso, e molti dei parametri su cui ci siamo basati per sedimentare le nostre abitudini e le nostre previsioni stanno cambiando.
Per capirci: dai tempi dei Sumeri ad oggi non ci sono mai stati 416 ppm di CO2 nell’atmosfera, la temperatura globale non ha mai raggiunto gli 1,2 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali, il livello degli oceani non è mai stato così alto, la calotta artica non si è mai ritirata al punto da fare emergere nuove rotte marittime, e via dicendo. Se gli ultimi due anni ci hanno insegnato qualcosa, è che la nostra capacità di previsione dei fenomeni complessi è limitata, che la crisi climatica è un alimentatore di instabilità che rende i trend e i processi globali molto meno prevedibili. Pensare che le guerre per l’acqua siano impossibili solo perché per millenni sono state estremamente rare è un modo di ragionare che male si adatta ai tempi che stiamo vivendo. Lo spettro del possibile si è ampliato e, come dimostrano il decorso della pandemia da Covid e quanto sta accadendo in Ucraina, noi non siamo equipaggiati a riempirne le lacune per tempo con l’immaginazione.
Perciò, un approccio sensato alla questione idropolitica è proiettarne i possibili esiti al netto di timori e profezie. In quest’ottica, la cooperazione internazionale dovrebbe essere invocata come strumento di prevenzione di possibili guerre dell’acqua, non sventolata come prova della loro impossibilità.