La stampa di destra festeggia: l’onore degli Alpini è salvo. I veri molestati, alla fine, erano loro. La pm di Rimini ha chiesto l’archiviazione della denuncia a carico di ignoti presentata dopo i numerosi casi di molestie documentati durante l’adunata del corpo in città, lo scorso maggio. Peccato che l’archiviazione non sia un’assoluzione, tanto più che la decisione della procura deriva dall’impossibilità di identificare gli autori delle molestie dai filmati delle telecamere per l’alto numero di presenti all’evento.
Non si tratta quindi della prova che le centinaia di donne che hanno parlato pubblicamente delle violenze si siano inventate tutto, come lasciano intendere i giornali che oggi parlano di “fango” o di “femministe mute”, ma di ciò che purtroppo accade molto spesso nel caso delle denunce di violenza contro ignoti, specialmente se relative a fatti avvenuti in presenza di centinaia, se non migliaia, di persone.
Le attiviste di Non una di meno Rimini – le prime a far luce su quanto stava accadendo nella loro città – hanno annunciato che sono pronte a presentare un altro dossier contenente decine di testimonianze di molestie e violenze. Il caso infatti non è chiuso, anche perché le vittime di violenza sessuale hanno un anno di tempo per presentare denuncia, e non è detto che non ne arrivino altre prima della fine di questo termine.
A differenza di altri che vanno denunciati entro tre mesi, il reato di violenza sessuale (che comprende non solo lo stupro, ma tutti gli atti sessuali non consensuali) gode infatti di uno statuto speciale proprio per la sua natura particolare. Molti studi infatti hanno dimostrato che alle vittime di violenza spesso serve tempo per elaborare e a volte solo ammettere ciò che hanno subìto, cosa che non accade se si è vittime, ad esempio, di uno scippo. Per questo la legge prevede tempi più lunghi. Non è escluso, quindi, che non arrivino altre denunce.
È però importante ricordare, ancora una volta, che non è il numero di denunce a determinare la veridicità e la gravità dei fatti. Posto che nel caso degli Alpini a Rimini esistono filmati come quello di Saverio Tommasi che mostrano molestie avvenute in presa diretta, l’esito dell’archiviazione è purtroppo quello che ci si deve aspettare quando si sporge una querela contro ignoti. Anche nel caso in cui gli autori sono noti, la giustizia italiana è caratterizzata da un alto tasso di abbandono.
Tra il 2014 e il 2020, ci sono state 42.548 denunce per violenza sessuale in Italia. Non sono disponibili dati specifici sulla violenza sessuale, ma per quanto riguarda lo stalking per quasi la metà dei casi è stata chiesta l’archiviazione e solo per il 42% dei casi di maltrattamenti in famiglia è iniziata l’azione penale. Bisogna inoltre considerare che secondo le ultime statistiche disponibili, risalenti al 2014, solo il 12% delle vittime denuncia una violenza subita dal partner. La percentuale si abbassa al 6% nel caso di violenze perpetrate da non partner.
Questi dati non significano affatto che le denunce presentate siano false. La falsa denuncia di violenza sessuale è infatti un fenomeno molto raro e un uomo nella propria vita ha più probabilità di subire una violenza che di esserne accusato ingiustamente. Il basso tasso di procedibilità della violenza sessuale e della violenza di genere nel suo complesso è anzi un problema documentato e riconosciuto, a cui si è provato a porre rimedio anche con una legge come il Codice rosso. Lo stato italiano è stato più volte condannato dagli organismi internazionali per la sua inerzia nei procedimenti di violenza di genere e il rapporto Grevio del Gruppo di esperte sulla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa ha sottolineato come il nostro Paese non faccia abbastanza per garantire che gli autori di violenze vengano condannati.
A questo si aggiunge un sostanziale disinteresse da parte delle autorità: “Il Grevio ha tentato di trovare una spiegazione a questi bassi tassi di condanna, ma sembra che le autorità non abbiano condotto un’analisi dei possibili fattori che contribuiscono a tali cifre, ad esempio esaminando il tipico percorso dei casi di violenza basata sul genere attraverso la catena delle indagini delle forze dell’ordine, del procedimento e del processo, e provando ad individuare i punti in cui può verificarsi l'abbandono del caso”, si legge nel rapporto.
“Tale analisi sarebbe necessaria per indagare su quanto affermato dalle organizzazioni di donne, secondo cui i rapporti delle forze dell’ordine a volte sono vaghi e insufficienti a supportare un'azione legale, mentre i tribunali penali spesso fanno discriminazioni nei confronti delle donne, sottovalutano le conseguenze ed i rischi della violenza basata sul genere, fomentano pregiudizi e stereotipi sessisti ed espongono le donne ad una vittimizzazione secondaria”.
Sono molte le ragioni che portano all’archiviazione: la notizia di reato è infondata, il fatto non costituisce reato o è di particolare lievità oppure, come nel caso di Rimini, non si riescono a identificare gli autori. Se vivessimo in un Paese in cui la giustizia penale corrisponde alla giustizia vera e propria, allora potremmo misurare la frequenza e la gravità della violenza sui dati che abbiamo a disposizione. Ma sono più eloquenti quelli che non abbiamo: se centinaia di donne e ragazze hanno raccontato di essere state molestate e hanno preferito non denunciare (per ora) è perché ripongono più fiducia nella loro voce che nel sistema giudiziario. Questo dovrebbe farci porre molte domande, su cosa non funziona e magari persino sul valore che la giustizia e il sistema carcerario hanno in una società che normalizza e tollera la violenza a tutti i livelli. Ma è più facile gioire per un’archiviazione, come se la cultura dello stupro fosse una scaramuccia tra uomini e donne e non un fondamento della nostra società.