Lo scorso venerdì, due attiviste del gruppo Just Stop Oil sono entrate alla National Gallery di Londra con due latte di zuppa al pomodoro nello zaino, hanno raggiunto la stanza in cui è appeso il quadro I Girasoli di Vincent Van Gogh e ne hanno rovesciato il contenuto sulla teca di vetro che lo custodisce.
Dopodiché hanno estratto di tasca della colla a presa rapida e si sono incollate con i palmi delle mani al muro:
“Cos’ha più valore: l’arte o la vita?” ha dichiarato ai presenti Phoebe Plummer, attivista ventunenne di Londra “Vale più del cibo? Più della giustizia? Siete più preoccupati di proteggere un dipinto o di proteggere il nostro pianeta e la gente che ci vive?”
Il video e le foto dell’accaduto hanno fatto il giro del mondo, sollevando alte barriere di indignazione. Anche tra le persone sinceramente preoccupate per la crisi climatica molti hanno squalificato il gesto, definendolo controproducente dal punto di vista politico e mediatico, affermando che così facendo si ottiene solo di mettere ancora più in ombra il messaggio che si sta cercando di veicolare.
Ecco, io non ne sono così sicuro. In primo luogo perché ritengo che l’obiettivo di dimostrazioni come quella di venerdì non sia tanto veicolare un messaggio sul posto (lo slogan: arte o vita?, del resto, è abbastanza ingenuo e fuori fuoco), quanto rompere l’illusione che il mondo sia in uno stato di sostanziale equilibrio, spezzare l’incanto acquiescente che ci rassicura che non ci troviamo in una condizione di emergenza, bucare quel velo di normalità illusoria che rende quasi impossibile comunicare il problema alla popolazione generale.
Un gesto che buca il velo
Tra i detrattori di Just Stop Oil, molti hanno lamentato il fatto che a essere preso di mira sia stato un museo, ossia un luogo di cultura, e non invece un’infrastruttura fossile, ossia i responsabili della crisi climatica. Queste persone probabilmente ignorano il fatto che nelle scorse settimane sono stati compiuti diversi atti di protesta nei confronti delle infrastrutture fossili, che però il più delle volte sono passati sotto radar, guadagnandosi molto meno visibilità di quanto successo a Londra venerdì.
Attenzione, però, non si tratta solo di una questione di visibilità: il punto è che un attacco a un’infrastruttura fossile ha un valore molto meno dirompente e destabilizzante di una dimostrazione innocua in un museo, e questo perché il fatto che degli attivisti anti-fossilisti prendano di mira un oleodotto, o una centrale a carbone, rientra perfettamente nella normalità illusoria di cui sopra.
Su queste pagine abbiamo sottolineato più volte come la lotta alla crisi climatica richieda un ripensamento – se non proprio un riapprendimento – del mondo in cui viviamo: c’è bisogno di scardinare quegli automatismi di pensiero che ci impediscono di prendere atto dell’emergenza esistenziale in cui ci troviamo.
Di fronte a due persone che lanciano una latta di zuppa di pomodoro su un quadro di Van Gogh, la nostra reazione automatica è lo scandalo, l’indignazione, l’irritazione; ed è comprensibile: un gesto simile ci appare iconoclasta, fa pensare a un disprezzo per l’arte, al vandalismo più puro e irriverente. È sufficiente però darsi il tempo di superare questa indignazione pavloviana per rendersi conto che ci troviamo di fronte a qualcosa che col vandalismo non ha nulla a che fare.
Partiamo dal fatto che un atto di vandalismo solitamente viene fatto di nascosto, a volto coperto, mentre qui abbiamo due ragazze che non solo si mostrano a favore di fotocamera, ma addirittura si incollano al luogo del “delitto” per assicurarsi che la loro azione non venga travisata.
“Non ci fraintendete” hanno sempre dichiarato gli attivisti di Just Stop Oil in occasioni simili. “Noi amiamo l’arte, ma non ci può essere arte su un pianeta morto”. Il fatto che le due attiviste, prima di agire, si siano sincerate che l'opera fosse protetta da un vetro, è indicativo; ma ancora più indicativa è la nostra reazione di fronte a una chiazza di zuppa tranquillamente lavabile.
Ci scandalizziamo se la confezione di un'opera d'arte viene temporaneamente coperta, molto di più di quanto ci scandalizziamo del fatto che la crisi climatica stia provocando decine di migliaia di morti ogni anno, che gli stati continuino a investire migliaia di miliardi in un settore che fa profitti accelerando il collasso del pianeta, che negli ultimi 50 anni la popolazione animale selvatica si è ridotta del 70%, che esistono tantissime soluzioni per scongiurare il collasso della civiltà umana, ma ancora si preferisce puntellare un sistema fossile incardinato sul profitto e sulla crescita.
E allora forse queste azioni hanno senso proprio per questo: ci mettono di fronte alla nostra cecità selettiva; ci piazzano uno specchio davanti e ci costringono a misurarci con i parametri sballati della nostra indignazione; stracciano quel velo resistente, fatto in buona parte di bias cognitivi e culturali, che ci impedisce di preoccuparci per la crisi climatica, e di individuare le avvisaglie di un problema troppo distribuito nello spazio e nel tempo, e troppo stratificato e interconnesso, per essere colto in tempo dai nostri cervelli poco allenati.
Invece di porci sul piedistallo moralista di chi l'arte la rispetta (non c'è nulla di più facile che rispettare qualcosa di universalmente protetto e celebrato), quindi, sarebbe meglio domandarsi perché queste persone mettono a repentaglio la propria fedina penale per un’azione che – altro automatismo – ci sembra sostanzialmente inutile, ascoltare le motivazioni che adducono, e magari anche proteggerle di fronte a chi non aspetta altro che poter spazzare la loro protesta sotto il solito tappeto di sopracciglia alzate.
Ma qual è allora, il messaggio?
Negli scorsi mesi, gli attivisti italiani del gruppo Ultima Generazione hanno organizzato proteste sulle autostrade e le tangenziali di diverse città; sono andate tutte più o meno allo stesso modo: una manciata di persone si è seduta di traverso sulle corsie del manto stradale, ha srotolato degli striscioni e ha bloccato le auto che passavano; e in tutti i casi qualche automobilista spazientito ha finito per trascinarli via a male parole.
A vedere i filmati, si rischia di desumere che quella dimostrazione abbia solo avuto l’effetto di generare astio nei confronti dei movimenti climatici, quando la realtà è che in quelle immagini spiccano solo le persone più ciniche e moleste (che spesso si dimostrano anche violente), mentre ci sono altre persone che di fronte a una scena simile rimangono spaesate, e si domandano cosa spinga dei cittadini lucidi e apparentemente equilibrati a fare qualcosa di simile. A quelle persone è possibile veicolare un messaggio, ed è uno spreco non farlo, che si sia o meno d’accordo con il tipo d’azione che ha aperto uno squarcio nel velo.
Intendiamoci: anche a me capita di dover usare l’auto per lavoro, e anche io, probabilmente, se mi trovassi bloccato in tangenziale per colpa di una protesta, mi irriterei. Ma se volessi superare questo automatismo potrei domandarmi cosa stia effettivamente succedendo, potrei andare a informarmi sulla questione ed evitare di rendere vano quel disturbo e quegli arresti.
È per questo che, invece di concentrarsi sul gesto in sé, e su quanto sia o meno opportuno, chi conosce e studia il problema dovrebbe sfruttare questa parentesi di attenzione mediatica per parlare delle ragioni degli attivisti, spiegando ancora una volta quale sia il problema e perché sia così impellente da portare due ragazze di vent’anni a esporsi alla gogna pubblica globale.
Un’azione normale in un mondo assurdo
Una settimana fa, mentre sedeva davanti a Montecitorio nel suo ventiseiesimo giorno di sciopero della fame, pochi minuti prima di incontrare un deputato che aveva accettato di parlare con lui, un attivista di Ultima Generazione è stato costretto dalla polizia ad alzarsi e andare in commissariato.
Mentre lo portavano via, ha dichiarato: “Vorrei veramente essere da tutt’altra parte, vorrei aver mangiato in questi 26 giorni piuttosto di aver fatto questa azione normale; questa azione è normale in un mondo assurdo, perché per avere attenzione devo fare una cosa assurda che è non mangiare”.
Poiché affrontare la crisi climatica impone un cambio di sguardo, un esercizio mentale utile potrebbe essere porsi nell’ottica di una persona futura, che si trovi a guardare i filmati della National Gallery dal punto di osservazione di un mondo ormai (si spera) decarbonizzato e ancora vivibile.
Agli occhi di quella persona, probabilmente, risulterebbe assurdo il comportamento di chi si scandalizza davanti a una teca imbrattata, di chi strattona persone sull’asfalto per poter tornare a guidare un veicolo inquinante, di chi applaude per l’arresto di attivisti che si battevano per una causa comune.
Che non si tratti di semplice vandalismo, ai loro occhi, risulterebbe chiaro dalle modalità e dalle spiegazioni che gli stessi attivisti hanno fornito sul posto; e queste spiegazioni alle loro orecchie suonerebbero come ovvietà: siamo i primi ad amare la bellezza nell'arte, ma amiamo prima ancora la bellezza naturale del mondo, e mentre l'arte è immortale (e protetta) la bellezza naturale è sull'orlo del collasso (e chi ha gli strumenti per farlo non sembra interessato a proteggerla).
“Non è il linguaggio dei pittori quello che si dovrebbe ascoltare, ma quello della natura, il sentimento per le cose nella loro essenza, perché è molto più importante la realtà di qualsiasi sentimento si possa provare per un quadro”.
Lo scrisse Vincent Van Gogh di suo pugno. Fosse vivo oggi, probabilmente sarebbe il primo a difendere quella zuppa.