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Lampedusa, nel centro per salvare le tartarughe: “Sono piene di plastica”

Il Lampedusa Turtle Rescue è attivo da 32 anni. Da quando Daniela Freggi si è trasferita sull’isola delle Pelagie per seguire la sua passione. Adesso dirige un centro che vive dell’impegno di chi volontariamente sceglie di imparare a salvare tartarughe marine nel luogo che le ha trasformate in un simbolo. “Con l’amministrazione locale non siamo mai riusciti a collaborare, però”, racconta Freggi a Fanpage.it. Spiegando anche le difficoltà a ottenere finanziamenti, mentre le attività sono costantemente a rischio per via delle difficoltà di reperimento di fondi. Le tartarughe, però, non hanno smesso di avere bisogno di aiuto. Da Etna, chiamata così perché ha ingerito lapilli (e ha perso una pinna amputata da una lenza) a Bubble, nata con una malformazione al carapace che le impedisce di nuotare bene. Tutte espellono plastica dall’intestino. E presto gli effetti della pandemia si faranno vedere anche su di loro: le mascherine abbandonate sono un problema pure in mare.
A cura di Luisa Santangelo
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Gli ami e le lenze dei pescatori. Le eliche dei motoscafi. Le reti abbandonate. E anche la plastica che finisce in mare in tutte le sue forme: nastri da imballaggio che vengono ingeriti interi, pezzi di buste, di pacchetti di sigarette, etichette di barattoli. Presto, anche i resti delle mascherine diventate indispensabili per la pandemia da Covid-19. Le tartarughe marine del Mediterraneo devono fronteggiare non solo i predatori naturali, ma anche i nemici innaturali. Quelli collegati all'azione dell'uomo nell'ambiente in cui le tartarughe nascono, crescono e, con sempre maggiori difficoltà, si riproducono. Al Lampedusa Turtle Rescue, il centro di recupero nel cuore delle Pelagie, l'azione dell'uomo si vede nella difficoltà di mandare avanti la struttura e, fisicamente, su ogni animale nelle vasche. Stella, per esempio, ha tutt'e due gli arti anteriori amputati per colpa della lenza attaccata a un amo rimasto nel suo esofago. Valentina, invece, ha il carapace spaccato da un'elica, una pinna mancante e una brutta infezione.

"Noi siamo qui da 32 anni", spiega a Fanpage.it Daniela Freggi, fondatrice e direttrice del centro di recupero ospitato da Acquacoltura, un'azienda che si occupa di allevamento ittico. Le vasche e i capannoni, già pronti e in servizio, sono stati una fortuna. "Qui abbiamo costi di gestione enormi: le tartarughe non vanno solo nutrite, ma vanno anche curate. Devono essere sostenute le spese per gli interventi chirurgici di cui spesso hanno bisogno e per le medicine che sono loro necessarie", prosegue Freggi. "In questi anni abbiamo salvato oltre seimila tartarughe marine", racconta. Le tartarughe, del resto, di Lampedusa sono un simbolo. Ogni tanto nidificano sulle spiagge incontaminate, lasciano le uova sotto la sabbia e da quel momento in poi si spera che i piccoli riescano a nascere e a raggiungere il mare.

"Non siamo mai riusciti ad avere finanziamenti né a collaborare con l'amministrazione locale, che anzi vuole aprire un piccolo centro di primo soccorso delle tartarughe per fare chiudere il nostro", afferma la direttrice del centro. "Le tartarughe che noi salviamo non sono nostre, non sono italiane e non sono neanche europee. Sono del Mediterraneo, quindi di tre continenti diversi". Per questo, dice Freggi, sarebbe necessario unire le forze per riuscire a tutelare al meglio questi animali marini in via di estinzione. I pescatori che collaborano al recupero delle tartarughe sono ancora pochi, meglio va con i diportisti privati e con le forze dell'ordine che pattugliano lo specchio d'acqua lampedusano. "Abbiamo fatto un importante lavoro per cambiare la mentalità delle persone che vivono il nostro mare chiuso". Ma i costi di gestione del Lampedusa Turtle Rescue rimangono coperti con le donazioni di chi visita il centro o di chi partecipa alla raccolta fondi online su GoFundMe. "Collaborando tutti insieme si potrebbero realizzare dei progetti di grande livello", conclude.

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