Gli incrementi delle bollette sono dovuti in buona parte alle maggiori quotazioni dall’inizio del 2021 del prezzo del gas, a loro volta causate dalla generale ripresa dell’economia dopo le forti restrizioni dovute all’emergenza sanitaria. Ed eccoci arrivati ai fattori finanziari della everything bubble. La domanda è tanta, l’offerta non riesce a starle dietro. Quello che rimane costa. In pratica, la ripartenza delle fabbriche e delle altre attività ha portato a una maggiore richiesta di energia facendo lievitare i prezzi.
Ma c’è un elemento di novità rispetto al solito. A contribuire all’aumento è anche la crescita dei prezzi dei permessi di emissione di CO2 – ovvero l’anidride carbonica prodotta dall’industria e dalle altre attività produttive – chiamati con un acronimo Ets (Emission Trading Scheme, il sistema di scambio delle quote di emissione). In sostanza si tratta di autorizzazioni a inquinare per le aziende europee, che possono essere scambiate in un vero e proprio mercato, le cosiddette “aste verdi”, seguendo il principio sposato a livello europeo del “chi inquina di più paga di più”. Si impone sostanzialmente alle imprese di sborsare dei soldi per continuare a emettere sostanze nocive. Se un’azienda deve inquinare più di quanto aveva previsto, dovrà comprare altri permessi e subire un costo, se invece riesce a ridurre le emissioni potrà venderli così da premiare la riduzione dell’impatto ambientale. Ma come ricordavo è un mercato. Quindi l’azienda li potrà vendere ad altre che ne hanno bisogno, guadagnandoci. Cosa che contribuisce ad alzare i prezzi.
Ovviamente, come in ogni mercato, a determinare il prezzo sono domanda e offerta. La prima è in aumento grazie alla ripresa tanto attesa, mentre l’offerta potrebbe presto ridursi perché l’Unione europea si appresta a tagliare gradualmente il numero di questi permessi, in modo tale da spingere le aziende europee a contrarre le proprie emissioni inquinanti. Così anche le imprese europee produttrici di energia devono scaricare i costi crescenti sui consumatori.
C’è anche un altro aspetto: il prezzo di queste quote, di questi “permessi”, viene aumentato gradualmente perché in tal modo si spingono le aziende a decarbonizzare. L’aumento fa sì che i consumatori del carbone si spostino verso il gas, che è già puntato da molti, contribuendo ulteriormente all’aumento delle sue quotazioni e quindi delle tariffe in bolletta.Vale infine la pena ricordare che la maggior parte delle centrali in cui si produce corrente sono termoelettriche. Vuol dire che per produrre energia si brucia soprattutto gas. Per questo aumentano anche i costi della bolletta della luce.
Davide Tabarelli, presidente di NE Nomisma Energia, intervenendo a Sky Tg24 il 15 settembre 2021 è stato chiarissimo. Teme un collasso del mercato: “A primavera 2022 molto dovrebbe rientrare di questa crisi, però lo diciamo da mesi che ci dovrebbe essere un ribasso. I prezzi invece continuano a salire. C’è un problema strutturale. Ho l’impressione che nel Regno Unito stiano pensando di chiudere. Il sistema sta collassando. Il gas del resto è un bene primario e siamo solo all’inizio della stagione invernale: la gente lo usa per riscaldarsi oltre che per fare elettricità, come facciamo soprattutto noi italiani”. Tabarelli usa parole forti ma effettivamente il giorno dopo dall’Inghilterra non arrivano buone nuove e una società chiude due sue fabbriche perché con i prezzi del gas così elevati non ce la fa. “Pensate a un bar che paga 1000 euro di bolletta al mese, come riuscirà a pagarne quasi 2000 con un’attività economica che peraltro non è ancora ripartita?”, si chiede Diego Pellegrino, portavoce dell’associazione Reseller, anche lui intervenuto nella stessa occasione a Sky Tg24.
Il rialzo delle bollette si sta verificando in un mondo in cui i prezzi di quasi tutto salgono. Che i prezzi salgano un po’ è cosa buona e giusta, ma che salgano di molto a fronte di salari uguali all’anno scorso se non inferiori non aiuta la ripresa. Questo peraltro negli Usa sarebbe il momento migliore per i lavoratori con un basso salario. La pandemia ha portato a carenze nel mondo del lavoro e ha forzato gli imprenditori ad aumentare la busta paga. Peccato che i lavoratori non lo percepiscano, dato che i prezzi sono sui massimi da dieci anni.
Come abbiamo visto, a fare pressione sui prezzi è la forte domanda ma sono anche le componenti che tardano ad arrivare. In paesi come il Regno Unito poi – dove i prezzi all’ingrosso ad agosto 2021 sono cresciuti a un livello record del 3,2 per cento rispetto allo stesso mese del 2020 e di oltre il 5 per cento per il britannico che si affaccia su uno scaffale del supermercato – pesano altre variabili quali la Brexit. Tanto che, in un articolo che vuole provocare, the Scotsman lo dice chiaro e tondo: i negozi che vendono giocattoli sono avvisati dai fornitori che i giochi potrebbero non arrivare per Natale. C’è infatti una carenza di circa 90.000 conducenti di mezzi pesanti che sta esercitando una pressione sempre più insostenibile sui rivenditori e sulle catene di approvvigionamento, in buona parte dovuta a circa 25.000 autisti dell’Ue che durante la pan- demia sono tornati nei loro paesi d’origine.
Capite ora quanto già accennato in precedenza. La strategia europea per la lotta al cambiamento climatico ha scatenato molte reazioni tra le aziende europee. Gli imprenditori si lamentano soprattutto del poco tempo a disposizione e degli alti costi. È ormai chiaro infatti che la decarbonizzazione costerà una montagna di soldi. Le industrie italiane hanno fatto i calcoli. Le imprese siderurgiche, chimiche, metallurgiche e produttrici di carta, vetro, cemento, ceramica associate a Confindustria hanno stilato un documento, assieme a Boston Consulting, per stimare il costo della proposta europea per la neutralità climatica. Risultato: fino a 15 miliardi di euro di costi aggiuntivi per il nuovo sistema di scambio europeo delle emissioni. Secondo le società energivore italiane l’aumento del prezzo dei permessi europei di inquinamento – che le aziende inquinanti devono comprare e il cui costo è in ascesa – potrebbe costare tra gli 8 e i 15 miliardi di euro tra oggi e il 2030. La paura degli imprenditori è quella di perdere competitività rispetto alle aziende extraeuropee, anche se la proposta della Commissione di imporre dei dazi ai prodotti inquinanti importati dovrebbe ridurre questo rischio.
L’alternativa all’aumento dei costi per l’acquisto dei permessi di inquinamento è l’investimento nella transizione energetica, per abbattere le emissioni. Anche questo fronte però richiederà uno sforzo finanziario importante, per fare in modo di impiegare combustibili green, come l’idrogeno, o elettrificare i processi produttivi. Interventi per cui sarà essenziale il contributo pubblico del Recovery Fund, che sulla transizione energetica spenderà quasi 70 miliardi di euro. Ma c’è chi, come i produttori italiani di ceramica, lamenta l’inesistenza di tecnologie alternative per il ciclo di cottura, in cui le temperature in genere vanno oltre i 1000 gradi centigradi. Se dunque i privati dovranno spendere per essere meno inquinanti, con costi che potrebbero ricadere anche sui consumatori, chiederanno un forte contributo pubblico per essere aiutati nella transizione.
Ho sentito molte critiche in tal senso: “L’Italia ha stanziato quanto basta?”. In realtà il problema non è tanto quanto ha stanziato. Pensiamo ai singoli gruppi e lasciamo per un attimo da parte lo Stato. La sola Enel aveva in cantiere un importante piano di investimenti finalizzato alla transizione energetica nel nostro paese. Prevedeva la chiusura e conversione delle sue centrali a carbone, oltre a investimenti in rinnovabili e digitalizzazione delle reti di distribuzione. Puntava allo sviluppo della mobilità elettrica, all’elettrificazione del trasporto pubblico locale e dei porti, all’efficientamento energetico per imprese e consumatori. Questo per dire che i privati avevano già investito, ben prima del Pnrr.
Dove voglio arrivare? Il vero ostacolo alla transizione non è di carattere economico (i fondi ci sono e c’erano già prima, e gli operatori interessati a questi business non mancano) ma, come ho sottolineato spesso in questo libro, di carattere regolatorio e burocratico. Basti pensare che nell’ultima asta indetta dal gestore dei servizi energetici Gse S.p.A. per la realizzazione di nuovi impianti rinnovabili e il rifacimento di quelli esistenti, è stato assegnato solo il 5 per cento di quanto messo a disposizione, per mancanza di offerte da parte degli operatori.
Perché un’azienda dovrebbe investire nella realizzazione di impianti rinnovabili se le autorizzazioni hanno tempi biblici e se non ha nemmeno la certezza che questi impianti saranno mai realizzati? Senza contare le varie sovrintendenze, che hanno potere di veto su qualsiasi progetto. Stessa cosa vale per la chiusura delle centrali a carbone: nessuna certezza su tempi e autorizzazioni. Idem per la mobilità elettrica: ogni comune ha le proprie regole e i propri temi. Se non si cambia, altro che transizione. Resterà un bellissimo obiettivo che non verrà mai raggiunto.
La transizione ecologica ha poi un altro problema, sottolineato a luglio 2021 dai ministri Giorgetti e Cingolani, che possiamo sintetizzare così: è bellissima, ma come si inserirà nella nostra realtà? Per esempio, che fine faranno i nostri distretti auto? “In questi giorni stiamo parlando con il settore automotive”, ha spiegato il ministro della Transizione ecologica Cingolani parlando al seminario estivo della Fondazione Symbola. “C’è una grandissima opportunità nell’elettrificazione. Ma ieri è stato comunicato dalla Commissione che anche le produzioni di nicchia, come Ferrari, Lamborghini, Maserati, McLaren, dovranno adeguarsi completamente all’elettrico entro il 2030. Questo vuol dire che, a tecnologia costante, con l’assetto costante, la Motor Valley la chiudiamo”.
Cingolani si è fatto portavoce del settore automobilistico di lusso della Motor Valley, rappresentato in forma simbolica in particolare dalla Ferrari. Ipotizzare che Ferrari chiuda significa ipotizzare che chiuda il marchio più conosciuto e stimato al mondo. Traducendo le parole del ministro: c’è troppo poco tempo per adeguare il settore automobilistico di lusso all’abbattimento delle emissioni. La domanda è semplice: chiudere la fabbrica che inquina o lasciarla aperta e salvare i posti di lavoro? Il passaggio a un’Europa più verde (e a una maggiore tutela della salute) non può attendere ancora a lungo, ma il nuovo piano comunitario crea malumori all’estero e in Italia. Il ministro dello Sviluppo Giorgetti fa eco alle parole di Cingolani: “Attenzione a non finire fuoristrada”, e ancora: “Da qui a un decennio l’economia cambierà completamente, nasceranno nuovi settori, e altri, in base a questa sorta di eutanasia decisa dalla politica, moriranno”.
Dal 2035, secondo le ipotesi, le auto nuove dovranno essere a impatto zero, in pratica solo elettriche o a idrogeno. In tutto il continente, di veicoli di questo tipo (esclusi gli ibridi) ne circolano pochissimi: solo lo 0,2 per cento. Le case automobilistiche chiedono più tempo, ed è per questo che il ministro Cingolani dice quanto ho riportato. Ferrari, Maserati, Lamborghini – per citare alcuni dei marchi più celebri – potranno mai adeguarsi? Le nuove regole in embrione impongono standard non solo per i tubi di scappamento ma anche per i cicli industriali, con un robusto taglio alle emissioni di anidride carbonica e un aumento dei costi per chi la diffonde nell’aria.
Secondo i commissari europei la transizione energetica che ci attende sarà “dannatamente difficile”. Ma l’alternativa che il cambiamento climatico ci propone sarebbe ben più costosa e dolorosa, come ci hanno mostrato le immagini catastrofiche arrivate dalla Germania nell’estate del 2021.
(Articolo tratto dal nuovo libro di Mariangela Pira, intitolato “Il mondo nuovo” ed edito da Chiarelettere)