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La vendetta di Vasto non è giustizia: si chiama omicidio

Il 1° febbraio Fabio Di Lello vendica la morte della moglie sparando a Italo D’Elisa, il ventunenne che sette mesi prima travolse e uccise la sua Roberta. Nonostante quello commesso da Di Lello sia un omicidio volontario, l’opinione pubblica sembra sostenere le ragioni di quell’uomo distrutto dal dolore. Ma in un Paese civile per alcuna ragione si può accettare l’esistenza della giustizia fai-da-te, che altro non può generare che una infinita e inarrestabile spirale di vendetta.
A cura di Charlotte Matteini
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Il caso dell'omicidio di Vasto ha senz'altro scosso l'opinione pubblica e posto un importante quesito: è legittimo farsi giustizia da soli? Prima di rispondere a questa domanda, occorre ricapitolare brevemente il fulcro della vicenda. Il 1° febbraio, a circa 7 mesi dalla morte della moglie Roberta Smargiassi, Fabio Di Lello uccide a colpi di pistola il ventunenne Italo D'Elisa, il ragazzo che il 1° luglio 2016 era alla guida della macchina che travolse e uccise Roberta. Nel corso di questi sette mesi a Vasto e sulla stampa locale le fazioni innocentiste e colpevoliste si scontrano, gli avvocati delle parti inviano lettere ai giornali contraddicendo le versioni rese dalla controparte avversaria, i cittadini chiedono giustizia a gran voce e organizzano fiaccolate e manifestazioni per Roberta.

In questi sette mesi è plausibile che Fabio Di Lello avesse iniziato a covare il grave risentimento che lo ha portato di fatto a impazzire, nessuno può sapere che cosa sia esattamente scattato nella sua mente, difficile giudicare la complessità dei meccanismi che sottendono a un gesto del genere. Quello su cui però ci si può tranquillamente soffermare è la reazione dell'opinione pubblica alla notizia. Leggendo i vari commenti pubblicati sotto ai post dedicati alla vicenda, una sensibile maggioranza di persone sembra essere assolutamente concorde nel sostenere che sia legittimo farsi giustizia da sé, e dunque uccidere chi ha ucciso un proprio caro, fondamentalmente perché la Giustizia italiana non funziona. Tra i vari "se era in carcere non succedeva" ai "dopo soli sette mesi era già libero", il punto fondamentale che sembra emergere dalla discussione sociale è soprattutto uno: unito alla mancanza di approfondita conoscenza del diritto processuale – che per carità non è richiesto a nessuno, se non agli addetti ai lavori – la sfiducia nella giustizia sembra farla da padrone.

Poco conta che D'Elisa fosse libero perché, concluse le indagini a novembre, fosse in attesa di sapere dal Gup se sarebbe stato rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio stradale e questo tipo di reato – in assenza di aggravanti come, ad esempio, l'omissione di soccorso o la guida sotto l'effetto di alcool o droghe – non preveda la custodia cautelare in attesa di processo, la vulgata afferma sia ingiusto tenere un assassino a piede libero e trova molto più facile sostenere le ragioni di Di Lello, senza tenere conto che tra i due omicidi esiste una differenza sostanziale ineludibile: quello di D'Elisa fu un atto colposo, non voluto, mentre quello commesso da Di Lello è volontario aggravato dalla premeditazione, secondo i pm.

Nonostante quindi l'atto commesso da Di Lello sia giuridicamente più grave rispetto a quello di D'Elisa e non frutto di un incidente stradale,  le ragioni dell'uomo sembrano prendere il sopravvento, utilizzate per giustificare il reato. Perdonare chi ti ha portato via una persona cara è un atto di coraggio che però non può essere preteso. Esistono persone che nonostante tutto riescono a lenire il dolore evitando di farsi accecare dall'ira, ne esistono altre che invece hanno l'istinto di vendicare la morte a qualsiasi costo. È legittimo? No, ma è umano. Ed è proprio perché il sentimento di vendetta cieca e furiosa è umano e incontrollabile che esiste la giustizia. A farsi carico del processo, del giudizio e della condanna di chi ha commesso un reato non possono che essere persone non sentimentalmente coinvolte nella vicenda, giudici che esaminano il caso con il giusto distacco e prendono decisioni sulla base del diritto esistente e non della vulgata popolare guidata dall'umano rancore.

La giustizia privata non può che essere considerata sbagliata sotto ogni punto di vista perché non è giustizia, ma solo una punizione vendicatica che nulla risolve. Di Lello ora sarà accusato di omicidio volontario premeditato senza alcuna attenuante, sconterà non si sa quanti anni di galera e il suo gesto non gli ha certo restituito la sua amata Roberta. Dall'altro lato la famiglia di D'Elisa piange un ragazzo di appena vent'anni che ha pagato con la vita un incidente non voluto. Aveva diritto Di Lello di ottenere giustizia per la morte della moglie? Senz'altro, ma altrettanto non poteva pretendere di dettarne i tempi, modificare e piegare il diritto a suo piacimento né arrivare a togliere la vita a un'altra persona nella speranza di vendicare Roberta e forse lenire il dolore accecante che provava.

Considerare la giustizia privata come una o l'unica forma di giustizia ammissibile in mancanza d'altro non può che portare a un'inarrestabile e infinita spirale di dolore e vendetta, a qualche parente di D'Elisa che cerca e uccide Di Lello per vendicarne la morte e poi ancora portare qualcun altro a decidere di ammazzare chi ha vendicato la morte di D'Elisa e così via. Come diceva Mahatma Gandhi "occhio per occhio, e il mondo diventa cieco".

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Milanese, classe 1987, da sempre appassionata di politica. Il mio morboso interesse per la materia affonda le sue radici nel lontano 1993, in piena Tangentopoli, grazie a (o per colpa di) mio padre, che al posto di farmi vedere i cartoni animati, mi iniziò al magico mondo delle meraviglie costringendomi a seguire estenuanti maratone politiche. Dopo un'adolescenza turbolenta da pasionaria di sinistra, a 19 anni circa ho cominciato a mettere in discussione le mie idee e con il tempo sono diventata una liberale, liberista e libertaria convinta.
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