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Cambiamenti climatici

La transizione ecologica costerà molto di più ai ricchi che a noi persone normali

Chi pagherà la transizione ecologica? Ci raccontano che contrastare i cambiamenti climatici sarebbe una catastrofe per il tenore di vita dei cittadini comuni e delle classi meno abbienti. Ma molti studi dicono il contrario: costerà molto di più ai più ricchi.
A cura di Fabio Deotto
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Una delle menzogne più diffuse e contagiose che circolano sulla transizione ecologica riguarda il costo che questa avrebbe sulle persone comuni: c’è chi prospetta scenari di incubo, in cui la gente si ritroverà a vivere di stenti, privata di ogni genere di comodità. L’idea alla base di questa narrazione è che senza i combustibili fossili saremo costretti a tirare la nostra cinghia energetica, o a pagare tasse stratosferiche per evitare di vivere costantemente nel disagio.

Non ci voleva uno studio apposito per capire che invece, a rimetterci maggiormente in una prospettiva di decarbonizzazione, sarà chi oggi si arricchisce a dismisura estraendo, raffinando e vendendo idrocarburi. Ma vista la mole di falsità messe in giro da chi continua a scommettere sulla tenuta del sistema fossile, qualcuno ha pensato bene di realizzarlo, quello studio. Il risultato parla chiaro: l’eventuale perdita di asset da parte dell’industria petrolifera non creerebbe lo smottamento sistemico che alcuni paventano; a dirla tutta avrebbe sulla popolazione generale un impatto minimo.

Non devono per forza rimetterci i contribuenti

Per capire perché la transizione ecologica sia tanto osteggiata da alcuni, specifici settori è utile entrare in confidenza con il concetto di “stranded asset” (in italiano, letteralmente, “bene incagliato”). La maggior parte delle analisi che abbiamo a disposizione indicano chiaramente che, per fermare il riscaldamento globale e arginare la crisi climatica, sarà necessario chiudere i siti di produzione di combustibili fossili ben prima che le riserve a cui attingono siano esaurite e ben prima che l’investimento iniziale abbia prodotto il ritorno atteso. Quando un investimento si ritrova a perdere valore in modo imprevisto o prematuro, si parla di “stranded asset”.

Lo studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Joule, ha calcolato l’impatto che potrebbe avere la chiusura dei 40.000 siti di estrazione di gas e petrolio che sarebbero necessari a mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C. Risultato: oltre due terzi dei 350 miliardi di dollari di perdite previsti per gli USA verranno assorbiti dal 10% più ricco, mentre solo il 3,5% andrebbe a ricadere sulla metà più povera della popolazione. Una distribuzione simile è prevista per l’Europa, dove le perdite previste ammontano a 200 miliardi.

200 miliardi possono sembrare tanti a chi ne guadagna qualche decina di migliaia l’anno, ma sono una cifra tutt’altro che ingestibile per chi detiene la maggioranza di questi asset: la tendenza a diversificare il portafoglio investimenti fa sì che per i più ricchi una transizione ecologica rapida non andrebbe a intaccare più del 1% del patrimonio. Per contro, le ricadute minime che gli stranded asset avrebbero sul 50% meno ricco, principalmente a causa di piani pensionistici ancora legati agli investimenti fossili, potrebbero essere compensati dai governi con una spesa massima di 12 miliardi negli Stati Uniti e di 9 miliardi in Europa.

Perché continuiamo a comprare mele marce

Nel frattempo continuano a uscire nuove analisi che dimostrano come i vantaggi economici di una transizione ecologica trasversale superino di gran lunga gli svantaggi. Lo scorso settembre, uno studio dell’Università di Oxford ha mostrato come una transizione energetica rapida consentirebbe di risparmiare, di qui al 2050, ben 13.000 miliardi di dollari. “C’è questo fraintendimento diffuso secondo cui il passaggio a un’energia pulita e sostenibile sarà doloroso, costoso e imporrà a tutti dei sacrifici” ha dichiarato Doyne Farmer, a capo del team di ricerca “Ma è semplicemente falso: il mondo sta affrontando contemporaneamente una crisi dell'inflazione, una crisi della sicurezza nazionale e una crisi climatica, tutte causate dalla nostra dipendenza da combustibili fossili costosi, inaffidabili, inquinanti e penalizzati da prezzi volatili.”

Persino il Fondo Monetario Internazionale è intervenuto a mettere in guardia i vari paesi dai rischi di una transizione troppo lenta: stando all’ultimoWorld Economic Outlook, pubblicato lo scorso ottobre, ritardare l’azione climatica non andrebbe solo ad accrescere significativamente l’inflazione, penalizzerebbe anche quella crescita economica in nome della quale si continua a sabotare ogni intervento di decarbonizzazione.

“Investire in un progetto fossile è come comprare una mela marcia” ha spiegato Lucas Chancel, uno degli autori dello studio “Una mela che è marcia per colpa del cambiamento climatico.”

Eppure, al netto di tutti i proclami e le campagne pubblicitarie sul loro impegno green, le grandi aziende degli idrocarburi continuano imperterrite a investire nei combustibili fossili. Questo giovedì, il nuovo CEO di Shell, Wael Sawan, ha affermato che “Il mondo ha ancora un disperato bisogno di gas e petrolio”, alludendo alla possibilità che la crescente domanda energetica da parte del mercato asiatico, combinata a un inverno rigido in Europa, potrebbe comportare una nuova impennata nelle bollette “Tagliare la produzione di gas e petrolio con il rischio che il costo della vita torni a crescere, come abbiamo visto l’anno scorso, sarebbe pericoloso e irresponsabile.”

Un’affermazione che di fatto rende vana la promessa fatta dallo scorso CEO di arrivare a carbonio zero entro il 2050, ma che non arriva inaspettata: lo scorso mese Shell aveva annunciato di intendere mantenere stabile la propria produzione di qui al 2030, e di voler investire 40 miliardi di dollari nella produzione di gas e petrolio di qui al 2035. Non è difficile immaginare perché: solo nel 2022 l’azienda olandese ha messo in tasca profitti per 36 miliardi di dollari, una quota mai raggiunta prima.

E non stupisce che altre aziende del settore stiano tirando il freno sulle promesse passate (BP, per dire, ha ridotto il target di taglio alle emissioni dal 35-40% al 20-30% entro il 2030): proprio perché l’impero degli idrocarburi è agli sgoccioli, chi ha il potere di indirizzare il mercato sta facendo in modo di tenere il sistema fossile in animazione sospesa finché l’ultima goccia di petrolio non sarà stata estratta e venduta.

Le mele saranno anche marce, insomma, ma se vengono mantenute sul mercato a forza, e a discapito di quelle sane, ci sarà modo di trarne enormi profitti.

Chi sta pagando la crisi climatica e chi dovrebbe pagarla

Mentre si continua a dibattere sui costi di una transizione rapida, la crisi climatica presenta ogni anno un costo sempre più alto; e a pagare quel conto sono spesso i paesi più vulnerabili e le persone più marginalizzate. L’ultimo rapporto IPCC mostra fuor da ogni ragionevole dubbio come gli eventi climatici estremi, la trasformazione dei pattern di precipitazione, la desertificazione, l’innalzamento delle acque e tutti gli altri effetti del riscaldamento globale stiano facendo aumentare il numero di persone in condizioni di povertà, di scarsità idrica e alimentare, e stiano rendendo inabitabili ampie zone del mappamondo, costringendo già oggi milioni di persone ad abbandonare le proprie case.

Di qui ai prossimi 30 anni, l’inazione climatica comporterebbe perdite economiche pari a 23 trilioni di dollari, ossia tra l’11 e il 14% della produzione economica globale. L’enorme peso di questa perdita rischia di essere scaricato sulla popolazione generale, ed è precisamente questo l’orizzonte a cui punta la narrazione di cui parlavamo a inizio pezzo. Diffondendo l’idea secondo cui i combustibili fossili sono l’unica alternativa per mantenere lo stato di benessere a cui siamo abituati, le aziende di gas e petrolio stanno riuscendo a ritardare l’azione climatica quanto basta da massimizzare le opportunità di profitto che un sistema fossile ancora garantirebbe, abituando nel contempo la gente all’idea che le ricadute di queste decisioni scellerate dovranno essere sostenute da tutta la popolazione, e in particolare dai contribuenti.

Come abbiamo già raccontato su queste pagine, lo scorso novembre  Oxfam ha rivelato come 125 tra le persone più ricche e influenti del mondo producano ogni anno 393 milioni di tonnellate di CO2; il che significa che ognuno di questi miliardari inquina ogni anno quanto più di un milione di persone.

E allora, se è vero che una transizione ecologica rapida comporterà anche dei costi, è anche vero che c’è chi negli ultimi decenni ha accumulato risorse finanziare più che sufficienti a coprirli, e l’ha fatto contribuendo più di tutti a rendere questa transizione inevitabile. Che debbano essere loro a pagare non è più soltanto una possibilità, è l’unica opzione che possa garantire un minimo di giustizia.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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