Quel sabato del 30 luglio 2011 per Bernardino Budroni, bel ragazzo della periferia capitolina, era cominciata come una mattina qualunque. Si era lavato i denti, si era vestito con quella cura che era sempre piaciuta alle sue compagnie femminili e aveva imboccato la porta di casa di via Mentana col il solito spirito concreto e positivo. Non poteva sapere che quella giornata sarebbe finita con un folle inseguimento sul GRA, un'ambulanza che portava via il suo corpo esanime e la pistola di un poliziotto con due proiettili di meno in canna.
La lite con la ex
La vicenda di ‘Dino', oggi una delle più tristi e oscure della cronaca nera italiana, è legata alla sua storia sentimentale con una donna che aveva frequentato per mesi. Era diretto a casa di lei il pomeriggio della sua morte, è sempre di lei è il citofono al quale ha suonato intorno alle 23, imbattendosi, suo malgrado, nella voce di un uomo, che lo ha mandato su tutte le furie. È stato allora che, cieco di rabbia, Dino ha danneggiato il portone tentando di forzarlo e scatenando il panico della donna e dell'amico che si trovava in casa con lei. Proprio quest'ultimo decide di chiamare la polizia per indurre Dino ad andarsene, ma lui è furioso e non vuole rendere conto alla polizia, così si precipita in auto e parte velocissimo.
La folle corsa
La polizia lo segue, lo perde, lo intercetta di nuovo sul Grande Raccordo Anulare, direzione Mentana, dove la pattuglia ingaggia un vero e proprio inseguimento. Dino non vuol saperne di fermarsi, ma ben presto si trova stretto tra le auto della polizia e quelle dei carabinieri, che dopo aver visto la scena delle auto in fuga si sono accodati per fornire supporto. A un certo punto la ‘Ford' di Dino finisce all'angolo contro il guardrail, le auto si bloccano all'altezza dell'uscita 11 del GRA: la corsa è finita, gli agenti lo tengono sotto tiro, lui si ferma, tira il freno a mano, si arrende. È allora, stando ai racconti dei testimoni e alle successive perizie balistiche, che partono due colpi ad altezza d'uomo che lo feriscono alla schiena, mentre si trova in posizione di difesa. Due colpi che non gli lasciano scampo. Poco dopo sul GRA si formerà uno sciame impazzito di auto, mezzi delle forze dell'ordine e dei soccorsi per quello che, sulle prime, viene identificato come incidente.
Era pericoloso (ma era disarmato)
Qualche ora dopo la versione cambia. Dino Budroni, stalker della sua ‘ex' è stato ucciso al culmine di un inseguimento folle. ‘Era fuori controllo' si legge tra le righe delle ricostruzioni di stampa, ma gli amici e i familiari non ci credono. Non può essere perché Dino non era uno stalker, ma solo un uomo che un giorno si è infuriato e ha commesso delle azioni avventate e pericolose. Su di lui, non pendeva alcuna denuncia di atti persecutori prima di quel giorno. Dino, peraltro, era disarmato. Inizia qui il calvario della famiglia Budroni, che prima vede offesa la memoria del figlio e dopo la sua tomba, profanata dai vandali. Per l'opinione pubblica se l'è cercata, ha turbato la pubblica quiete di un via residenziale, danneggiato il portone di un edificio e poi ha sfidato le forze dell'ordine. Questa ricostruzione, tuttavia, non basta a spegnere la legittima domanda di verità di una famiglia che alla fine vede finalmente aprirsi l'aula del tribunale per un processo per omicidio colposo a carico dell'agente che sparò quei due colpi: Michele Paone, all'epoca dei fatti 29enne.
I testimoni: "Hanno sparato ad altezza d'uomo"
È il 2013 quando il processo prede il via, carburando con fatica mentre, intanto, l'interesse dei media e dei programmi televisivi che all'epoca se ne occuparono come del nuovo caso sul caso Gabriele Sandri, va scemando, fino a relegare l'affare Budroni ai giornali locali. Bisognerà aspettare il 2016 per la prima sentenza che scagiona l'imputato: ha sparato mirando alle gomme, ma ha mancato il bersaglio perché l'auto non era ferma. Un assioma che verrà rovesciato dalle successive perizie balistiche, che dimostrano che l'auto era ferma e il Budroni immobile. Tale tesi verrà messa in crisi anche dalle testimonianze di chi quel giorno c'era e ha visto. Come uno dei carabinieri che si unirono alla corsa, che quel giorno a un suo superiore, disse proprio così:
L'audio choc
(dalla registrazione della chiamata acquisita agli atti)
(Gli hanno sparato) nel momento in cui lo stavamo fermando, nel momento in cui lo avevamo preso io ho sentito du' botte. Che avranno sparato in aria, ho pensato, tant'è che questo qua (Dino) ce l'avevo davanti a me e mi guardava. Perché anche io gli avevo puntato la pistola addosso, per non farlo muovere, però non avevo messo neanche il colpo in canna era giusto per intimorirlo. Mi guardava….poi ho visto che si è accasciato.
L'epilogo
Il 18 luglio 2018 Michele Paone è stato condannato a otto mesi per omicidio colposo, sentenza ribaltata dalla Corte di Cassazione che nel gennaio 2019 ha accolto il ricorso della difesa, annullando la sentenza per vizio di motivazione. Il processo d'appello è da rifare.