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La storia della banda della Uno bianca e chi c’era dietro l’organizzazione criminale

La Banda della Uno Bianca ha seminato sangue e terrore per sette lunghi anni tra l’Emilia-Romagna e le Marche. Ricostruiamo tutta l’attività criminale dei rapinatori.
A cura di Anna Vagli
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Sette sono stati gli anni di terrore, dal 1987 al 1994, che hanno chiuso in una morsa di terrore l’Emilia-Romagna e le Marche. A seminare il panico per un così lungo periodo è stata una banda criminale, denominata a partire dal 1991 “Banda della Uno bianca”, con il chiaro riferimento all’auto usata per svolgere le proprie attività delittuose.

Secondo lo SCO, il servizio centrale operativo della Polizia di Stato, 103 sono stati i crimini commessi, 34 i morti e oltre un centinaio i feriti. Inizialmente la banda metteva in atto rapine ai caselli stradali, poi alle banche ed ai furgoni porta valori. Fino ad arrivare agli agguati ai privati cittadini.

L’elemento che più ha contraddistinto questa terribile pagina di cronaca nera del nostro Paese è il dato per il quale tutti i componenti della Banda erano membri della polizia di Stato. Difatti, solamente dopo anni di indagine, le forze dell’ordine hanno scoperto che quei criminali erano in realtà loro colleghi.

Le indagini hanno portato dietro le sbarre anzitutto i tre fratelli Savi. Due di questi, Roberto e  Alberto, erano poliziotti, mentre Fabio era un camionista. In carcere, però, sono finiti anche altri agenti di polizia, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli.

Torniamo sull’intera vicenda, al centro della puntata di Cronache Criminali questa sera alle 23.35 su Rai 1, condotta da Giancarlo De Cataldo, con le firme delle autrici e registe Marina Loi e Flavia Triggiani, e prodotta da Verve Media company.

Le prime azioni criminali

Il primo colpo messo a segno dalla Banda corrisponde alla rapina al casello autostradale di Pesaro, avvenuto il 19 giugno del 1987 per poche lire.

Fino al 5 settembre 1987, in soli 47 giorni, vengono compiute 13 rapine, tutti ai danni dei caselli autostradali della A14, con la sola eccezione della rapina all’ufficio postale di Coriano. La maggior parte degli agguati erano messi a punto con una Fiat Regata grigia.

Per questo si comincia a parlare della “Banda della regata fantasma”. Per i fatti vennero arrestate quattro persone, con precedenti penali ma totalmente estranee ai fatti.

Il primo degli errori giudiziari che seguiranno permette ai Savi di perfezionare la loro attività criminale. Questi iniziano a rivolgere prevalentemente le loro attenzioni a supermercati ed uffici postali.

In verità, nell’ottobre dell’87 si verifica anche un tentativo di estorsione ai danni dell’autosalone Grossi. Il 3 ottobre del 1987, giorno in cui è prevista la cessione del denaro, viene colpito un poliziotto, Antonio Mosca, e due sue colleghi, Ada di Campi e Luigi Cenci, restano feriti. Mosca, sul letto di morte, si fa promettere da due colleghi, Baglioni e Costanza, di vendicare la sua morte.

La Banda delle Coop

Dal dicembre del 1987, i banditi si focalizzano sui supermercati Coop. Il 20 aprile 1988, un commando fatto di uomini armati a bordo di macchina modello Fiat Uno bianca si scaglia contro due carabinieri nel parcheggio di un supermercato Coop a Castelmaggiore, in provincia di Bologna.

Vengono così uccisi i due uomini dell’arma Umberto Erriu e Cataldo Stasi. Colpevoli, questi ultimi, di essersi avvicinati all’auto della banda durante un’attività di perlustrazione.

Ma il primo colpaccio in termini economici viene messo a segno in una Coop di Bologna, il 13 ottobre del 1988. In quell’occasione i rapinatori prelevano ben cento milioni di lire. Per la rapina, vengono arrestati alcuni pregiudicati catanesi completamente estranei ai fatti. Questi erano stati denunciati da una loro basista, Annamaria Fontana che, incredibilmente, viene ritenuta attendibile.

Gli attacchi successivi

Il 26 giugno del 1989, i killer colpiscono ancora. Dopo aver rapinato la Coop di Corticella, i banditi incontrano per strada un uomo, Adolfino Alessandri che diviene poi testimone scomodo. Quest’ultimo verrà brutalmente ucciso dopo aver pronunciato la seguente frase: “Cosa fate, delinquenti?”. Sarebbero poi seguite una serie di rapine.

Tra queste quella all'ufficio postale di Bologna, che causò una quarantina di feriti, e quella ad una tabaccheria, che portò all’omicidio di un altro testimone, Primo Zecchi. L’uomo, infatti, aveva provato a prendere la targa dell’auto dei criminali. La furia della banda ancora non accennava ad arrestarsi. Al contrario, gli uomini in divisa avrebbero di lì a poco dato seguito ad una serie di attacchi contro i campi nomadi.

Il 27 dicembre 1990 si registrano altri due terribili omicidi. In quella giornata, una macchina modello Uno bianca si ferma a un distributore di benzina a Castel Maggiore. In quell’occasione, i due uomini armati chiesero al benzinaio di consegnare l’incasso della giornata. Però, prima di andarsene, uccisero Luigi Pasqui, che aveva cercato di dare l’allarme, e Paride Pedini, probabilmente reo di aver visto la banda cambiare auto, a Trebbio di Reno.

 La strage del Pilastro

Il 4 gennaio del 1991 al quartiere pilastro di Bologna una pattuglia dei carabinieri viene presa d'assalto alla banda di passaggio in quella zona per trovare una vettura da rubare. In quei frangenti, la pattuglia dell'arma, giunta sul posto per fermare le ripetute aggressioni contro gli extra comunitari, sorpassa l'auto della banda.

Ciò induce Fabio e Roberto Savi ad aprire il fuoco contro il conducente, Otello Stefanini. Mossi dalla convinzione che il sorpasso dei militari era finalizzato a registrare i loro numeri di targa. Stefanini, nel tentativo di fuggire al fuoco, va a sbattere contro una serie di cassonetti ed i fratelli Savi crivellano l’auto di colpi.

Gli altri due carabinieri, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, si gettano fuori dall’abitacolo e rispondono al fuoco. Riuscendo a ferire anche Roberto Savi. Tuttavia, a causa di un attacco proveniente da più fronti, non avranno scampo e verranno finiti con un colpo alla nuca.

A causa del volume del fuoco esploso i periti balistici impiegheranno mesi prima di ricostruire l’esatta dinamica della strage. Un elemento però inizia a sovrastare sugli altri: i killer del Pilastro erano a bordo di una Fiat Uno bianca. Una macchina comparsa in molti degli omicidi compiuti nel bolognese in quei mesi.

D’altro canto, la Uno bianca utilizzata per l’agguato viene abbandonata ed incendiata: uno dei sedili era sporco del sangue di Roberto, rimasto lievemente ferito all’addome durante il conflitto.

L’attacco all’armeria di Via Volturno

Il 2 maggio 1991, durante una rapina in un’armeria di Bologna, vengono uccisi Licia Ansaloni, proprietaria dell’esercizio, e Pietro Capolungo, carabiniere in pensione. Nel corso dell’azione delittuosa, finalizzata a rubare due pistole, una donna vede Roberto Savi fuori dall’armeria e fornisce un identikit agli investigatori.

Dopo aver mostrato quest’ultimo al marito dell’Ansaloni, questi nota la somiglianza con Roberto, suo cliente abituale. Ma nessuno tra gli investigatori ha mai collegato realmente l’uomo in divisa alla strage.

L’ultimo colpo della banda

Erano da poco passate le otto del 24 maggio 1994 quando a Pesaro, il direttore della Cassa di Risparmio, Ubaldo Paci, veniva freddato con un colpo di pistola alla schiena da un uomo con barba posticcia, occhiali e cappello. Ad aspettare il killer, poco distante, si trovava un complice che lo aspettava per fuggire.

Le indagini

Per anni i vari omicidi della banda non verranno collegati tra loro né tantomeno attribuiti a uomini in divisa. La svolta arriverà solamente nel gennaio del 1994, dopo sette anni di omicidi e violenze. Un giovane magistrato, il dottor Paci, organizza un vero e proprio pool per incastrare i componenti della banda.

L’ispettore Luciano Baglioni e l’assistente capo Pietro Costanza, poliziotti di Rimini e membri del pool, iniziano a sospettare della presenza di uomini in divisa all’interno della banda. Anche in considerazione dell’abilità dei rapinatori con le armi da fuoco e dell’inafferrabilità del gruppo. Che doveva, inevitabilmente, essere collegata al modus operandi delle forze dell’ordine.

Inoltre, i banditi conoscevano molto bene anche le abitudini dei dipendenti e le banche assaltate, probabilmente perché eseguivano meticolosi appostamenti prima di agire. Per questo motivo, Baglioni e Costanza, nonostante lo scioglimento del pool, decidevano di continuare ad indagare e, quindi, di appostarsi davanti ai vari istituti di credito.

Sarà Fabio Savi a fare il primo passo falso: il 3 novembre del 1994 effettua un sopralluogo presso una banca del riminese. E lo effettua con una Fiat tipo bianca dalla targa irriconoscibile, che suscita attenzione e curiosità degli investigatori. L’ispettore Luciano Baglioni e l’assistente capo Pietro Costanza decidono così di inseguire l'auto che si reca verso il paese di Torriana. Arrivato a destinazione, l'uomo a bordo della Fiat entra all'interno di una villetta.

Baglioni e Costanza si recano così al municipio del paese e scoprono che in quella abitazione abita Fabio Savi. Da quel momento in poi le indagini subiranno una notevole accelerazione.

Gli arresti

Le manette ai polsi di Roberto Savi sono scattate la sera del 21 novembre del 1994, mentre si trovava in servizio presso la Questura di Bologna e dietro disposizione della Questura di Rimini. Il fratello Fabio, invece, venne arrestato tre giorni dopo, il 24 novembre, a 22 km dal confine con l’Austria mentre si trovava con la compagna Eva Mikula. Il 26 novembre è stata poi la volta di Alberto Savi e Pietro Gugliotta. Gli ultimi ad essere arrestati sono stati Marino Occhipinti e Luca Vallicelli.

I processi

I componenti della banda sono stati giudicati dalla Corte d’Assise di Pesaro, Rimini e Bologna. Il controverso e complesso troncone giudiziario si è concluso il 6 marzo 1996 con la condanna a tre ergastoli per tutti e tre i fratelli Savi ed una condanna all’ergastolo per Marino Occhipinti.

Per Pietro Gugliotta, invece, i magistrati optano per una pena di ventotto anni di reclusione, poi tramutata in diciotto anni. Per Luca Vallicelli, componente marginale nell’attività della banda, è stata scritta un’altra storia giudiziaria. L’uomo ha infatti patteggiato una pena di tre anni ed otto mesi.

Nel corso dei processi venne altresì stabilito che lo Stato versasse ai parenti delle vittime 19 miliardi di lire.

Nell’agosto del 2008, dopo 14 anni di reclusione, Pietro Gugliotta è stato messo in libertà grazie all'indulto e la legge Gozzini. Dal 9 gennaio 2012 Marino Occhipinti aveva iniziato a beneficiare del regime di semilibertà e a lavorare ogni giorno presso una cooperativa sociale di Padova. Ma oggi, però, è tornato dietro le sbarre.

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